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Nel nuovo mondo una vecchia Europa

di Philip Stephens

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26 settembre 2009

Da New York a Pittsburgh si sente l'urto e lo scricchiolio delle placche geopolitiche. Gli ultimi grandi happening all'Onu e al G-20 lasciano il nuovo panorama globale ancora con l'aspetto di un grande cantiere. Alcuni contorni, però, sembrano ben delineati. Quattro cose emergono dall'indigestione di vertici di questa settimana: la conversione - seppur riluttante - della Cina al multilateralismo, la sfida crescente alla potenza occidentale, e in particolare americana, che proviene dal Medio Oriente, lo sforzo di Barack Obama di fissare nuove regole per il gioco globale e la posizione marginale dell'Europa.

Hu Jintao ha conquistato le prime pagine ammorbidendo le sue posizioni sui cambiamenti climatici. L'impegno del presidente a ridurre l'intensità di emissioni inquinanti della crescita industriale cinese non è garanzia di un accordo al vertice sul riscaldamento globale che si terrà a dicembre a Copenhagen. Ma l'iniziativa ha evidenziato un importante mutamento di approccio da parte della Cina.
Pechino finalmente riconosce di essere un protagonista sulla scena globale. Un anno fa la Cina rimaneva ancora aggrappata a un ruolo fondamentalmente passivo negli affari internazionali. Gli inviti dell'Occidente ad agire come un attore responsabile nel sistema multilaterale venivano accolte con fastidio dai governanti di Pechino, che sostenevano che si trattava di richieste premature: la Cina come paese in via di sviluppo privilegiava la non interferenza rispetto alle concezioni occidentali di dipendenza reciproca.
La crisi economica globale ha mandato all'aria questa strategia, dimostrando che Pechino non poteva disgiungere i suoi interessi interni e internazionali. Certo, la Cina se l'è cavata bene, dimostrando di poter continuare a crescere anche mentre l'Occidente era in recessione. Ma il crollo delle esportazioni ha ricordato quanto siano fitti e inestricabili i legami intrecciati dalla globalizzazione. Questa interdipendenza nelle capitali occidentali è data per scontata. Per Pechino comporta la spiacevole implicazione che gli stati hanno un interesse legittimo a mettere il naso nelle politiche interne degli altri.

Non che tutto questo significhi che la Cina si appresta a diventare un cliente facile nel gioco diplomatico internazionale. Ma Pechino ha cominciato a capire l'importanza del soft power, scambiando un piccato risentimento verso qualunque cosa puzzi di interferenza con uno sforzo per farsi degli amici e influenzare le persone.

La sfida all'occidente che proviene dal Medio Oriente è stata simboleggiata dalla malevola presenza newyorchese del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. Ma il mutamento dell'equilibrio di potere va al di là delle ambizioni nucleari dell'Iran e della negazione dell'Olocausto da parte del suo presidente. La potenza americana nella regione è uscita azzoppata dalla guerra in Iraq, dalla guerriglia in Afghanistan e dalla percezione che questi conflitti hanno prodotto fra gli stati arabi di un'incapacità da parte di Washington di mantenere quanto promesso.

Per ironia della sorte, a dare forma concreta a questa diminutio americana è stato, questa settimana, il più fedele alleato di Washington nella regione: il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto l'appello di Obama a rispettare gli impegni internazionali bloccando l'espansione degli insediamenti nei territori palestinesi occupati. Il secco rifiuto di Netanyahu è il segnale che anche lui considera l'America una potenza in declino. L'unico modo per il presidente americano di recuperare autorità sarebbe dichiarare pubblicamente i parametri di Washington per un accordo definitivo tra israeliani e palestinesi. L'interrogativo è se sarà disposto ad assumersi questo rischio.

Gli Stati Uniti, naturalmente, rimangono l'unica superpotenza mondiale, più forti dei loro rivali sotto tutti i punti di vista. Se Washington non riesce a imporre sempre il proprio volere, nessun'altra nazione può sperare neanche lontanamente di prendere il suo posto come garante della sicurezza mondiale. Detto questo, l'appello di Obama al resto del mondo affinché si assuma anch'esso l'onere della leadership è stato un'evidente ammissione del fatto che gli Stati Uniti sono una superpotenza insufficiente.
Volendo essere giusti con il presidente americano, Obama di questo si è reso conto da un bel po' di tempo. C'è del metodo nella sua diplomazia e nei suoi sforzi per ripristinare l'autorevolezza delle istituzioni internazionali, dileggiate dal suo predecessore alla Casa Bianca. Per poter esercitare effettivamente il potere, gli Usa hanno bisogno di legittimazione; e la legittimazione impone che gli Stati Uniti accettino la regole applicate agli altri.
Lo sforzo americano per rilanciare il trattato di non proliferazione nucleare è un passo tangibile in questa direzione.
Il fatto di riconoscere questi elementi oggettivi della vita geopolitica non rende assolutamente più facile il compito di Obama. La domanda che gli pongono sia gli alleati che gli avversari a Washington è perché, se piace così tanto a tutti, non riesce a ottenere quello che vuole. La risposta è poco piacevole per una superpotenza abituata a vincere: il mondo non è più come prima.

  CONTINUA ...»

26 settembre 2009
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