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Obama parla alla rabbia Usa

di Carlo Bastasin

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29 gennaio 2010
Il presidente Barack Obama (AP Photo-Charles Dharapak)

Ricollegarsi alla classe media. Stare dalla parte del cittadino anche stando sulla più alta sede del potere. Populismo? Contro-populismo? Nel suo discorso sullo stato dell'Unione, il presidente Obama ha attaccato Washington, le tattiche dei democratici e dei repubblicani, ha sottolineato gli errori dell'amministrazione Bush e perfino della Corte suprema. Ha puntato il dito soprattutto contro gli abusi delle banche e le interferenze delle lobby. Ma nonostante tutto, come notava ieri sul Sole 24 Ore Mario Platero, ha chiesto unità a un paese mai tanto polarizzato e ferito dalla crisi economica.

La dimensione della sfida è diventata evidente quando Barack Obama ha evocato lo scenario di un declino della superpotenza di fronte a economie in crescita. Negli intermezzi tra gli applausi, nell'aula del Congresso si potevano udire i battiti del microfono ogni volta che Obama ritmava le parole bilanciandosi con le mani sul podio, un rilevatore dell'attenzione con cui il discorso è stato ascoltato. Non era mai successo negli ultimi vent'anni. Obama ha ritrovato i toni accesi e al tempo stesso equilibrati che lo hanno portato alla Casa Bianca.

Ha toccato senza reticenze tutti i problemi che affliggono l'America, ma è stato meno coerente sulle soluzioni: raddoppiare le esportazioni entro cinque anni? Congelare la spesa pubblica, ma non subito e non su tutto. Rilanciare il libero scambio, ma senza impegnarsi sugli accordi multilaterali. Approvare la riforma sanitaria, ma senza spiegare come.
Il funzionamento della macchina politica americana è così diventato l'antagonista di un presidente eletto contro l'establishment e ora, dopo un anno di sconfitte, determinato a distanziarsi da esso. È un vecchio tema dell'eccezionalismo americano: l'individuo contro il sistema, che sia cittadino medio o presidente.

Nel brodo di coltura della generazione Obama, una delle più emozionanti canzoni dei Pink Floyd, Us and Them, lamentava il disagio di un'umanità continuamente divisa e spinta da «una battaglia di parole» a combattersi: «noi e loro, in fondo null'altro che gente comune», mandati a morire mentre i generali muovono le linee da un lato all'altro delle mappe. Obama è apparso sulla scena politica mondiale come un presidente ispirato e conciliativo che chiudeva un'epoca di guerre e divisioni. Ma dopo un solo anno, lo spirito irenico si è spento. «Quando le carte sono sul tavolo - ha chiesto la settimana scorsa il presidente togliendosi la cravatta e annunciando misure punitive nei confronti dei banchieri più avidi - quando arriva il momento delle decisioni difficili, in tutte le questioni importanti per le famiglie della classe media, chi credete che sarà al vostro fianco?»

Per un anno Obama aveva cercato la strada dalla «comune speranza di un giorno migliore» attraverso una disamina ostinata dei problemi. Ha rallentato il battito sanguigno del suo stesso partito come se la politica fosse fredda davanti a lui sul vetrino di un microscopio. Oggi, quella del primo Obama appare come l'ingenua presunzione scientifica di chi vede nella politica la ricerca di un'unica ed evidente soluzione ai problemi, anziché un costante processo di cambiamento e correzione. Oggi vuole tornare vicino al popolo senza cadere oltre il confine del populismo.

Il populismo non è scoperta recente, bensì il linguaggio storico della politica americana, un linguaggio in movimento, eterogeneo e radicale, cavalcato da chi si svuota per dar eco alla voce del popolo e poi la rigetta come un macigno sulle pieghe della realtà, a difesa di interessi collettivi minacciati da élites potenti. Se in Europa prende la forma delle promesse irresponsabili e non mantenute, negli Usa il tema è quasi sempre "Noi contro di Loro". L'estrema semplificazione della politica è infatti quella di non identificare se stessi bensì il nemico, all'interno del paese o spesso all'esterno dei suoi confini. E non è difficile né pretestuoso oggi vedere nelle lobby finanziarie o delle assicurazioni sanitarie, la traccia della manipolazione del consenso per interessi particolari.

I percorsi legislativi delle riforme sono la testimonianza di ciò che i dati degli osservatori politici americani segnalano da alcuni mesi: la spesa delle lobby ha superato tutti i record. Ogni provvedimento allo studio del congresso, da quello sullo scambio privo di trasparenza degli strumenti derivati a quello sulla possibilità di escludere singoli pazienti dalle cure sanitarie, viene sottoposto allo stesso spolpamento del marlin che il vecchio Santiago, il pescatore cubano descritto da Ernest Hemingway, vede divorato pezzo a pezzo dagli squali nel suo ritorno notturno a casa.

Un cronista di Washington racconta di essere in grado di capire quali modifiche subiranno le leggi solo osservando all'ora di pranzo i tavoli del ristorante Toscana, il preferito dei lobbisti professionisti, poco lontano dall'Hotel Willard in cui la parola lobby è nata. Dentro al Congresso su Capitol Hill si calcola che nei giorni cruciali entrino almeno cinque lobbisti finanziari per ogni senatore. Ed era sufficiente assistere alle campagne televisive contrarie alla riforma sanitaria per comprendere che il potere di influenza comunicativa dei fondi della sanità privata si misura in molte decine di milioni di dollari. Proprio negli ultimi giorni una sentenza della Corte suprema ha abolito i limiti di legge alla spesa lobbistica appellandosi poco credibilmente all'emendamento sulla libertà di espressione. Secondo i democratici che pure, essendo il partito di maggioranza, sono i destinatari di fondi più ambiti dalle lobby che vogliono modificare direttamente la legislazione prima del voto, i picchi nello slittamento dei consensi popolari per la riforma sanitaria coincidono con i picchi della spesa per gli spot pubblicitari degli avversari della riforma e con il recupero di consensi dell'opposizione repubblicana.

  CONTINUA ...»

29 gennaio 2010
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