Ma insomma, che cosa si pretende da Barack Obama? Su entrambe le sponde dell'Atlantico i suoi sostenitori avevano tutti criticato la precedente amministrazione per il suo unilateralismo e quindi per la sua pretesa di decidere da sola in un mondo divenuto multipolare. Ciò che si auspicava era una nuova presidenza che accettasse il dialogo, l'interazione, la decisione che matura dal concerto con gli altri.
Ebbene, Obama cerca proprio di far questo, ed ecco tutti che si lamentano perché non decide abbastanza e perché va in giro per il mondo, in Cina, in Giappone e altrove, ma non porta a casa risultati sufficientemente concreti. Abbiamo dunque nostalgia di ciò che avevamo detto di non volere?
Una spiegazione di questa nostra apparente schizofrenia ce la offre David Calleo, direttore del Programma di studi europei della John Hopkins University di Washington, nel suo ultimo bel libro, «Follies of Power. America's Unipolar Fantasy» (Follie del potere. L'illusione unipolare americana). Scrive Calleo che l'immagine degli Stati Uniti come leader che guida il mondo ha di sicuro radici antiche, giacché risale agli stessi padri fondatori e alla missione di libertà che essi leggevano nel futuro del paese. Essa però ha poi preso corpo nel XX secolo e soprattutto negli ultimi decenni di questo, quando, caduto l'equilibrio "bipolare" con l'Urss, è parso ovvio che il mondo fosse divenuto per ciò stesso unipolare sotto la guida dell'unica superpotenza rimasta.
A guardar bene - nota Calleo - lo stesso equilibrio bipolare caduto insieme al muro di Berlino era stato in buona parte immaginario. Era reale nel senso che le sorti del mondo erano dipese dalla deterrenza nucleare reciproca con cui si erano neutralizzati a vicenda americani e sovietici, ma non lo era se e in quanto volesse far intendere che negli affari del mondo loro e soltanto loro avessero la forza di decidere. C'erano, a dir poco, la Cina e l'India, che andavano per la loro strada, e c'erano già aree di forte conflitto, nelle quali le superpotenze avevano in realtà sbattuto il naso, com'era accaduto agli americani nel Vietnam e ai sovietici in Afghanistan.
C aduta l'Urss, è questo il mondo che è venuto fuori, non un mondo egemonizzato dagli Stati Uniti.
Ma la lettura che ne è stata fatta è stata quella dell'unipolarismo. Un'intera generazione di americani l'ha fatta propria e nonostante i guai che ne sono usciti con l'avventura irachena, nonostante le aspettative di cambiamento che sono state riversate su Obama, «è possibile che l'egemonia rimanga l'ossessione ricorrente della nostra immaginazione, l'idea fissa della nostra politica estera», il metro - aggiungo io - su cui non solo gli americani, ma anche i non americani sono indotti a misurare colui che avevano applaudito proprio perché lo aveva finalmente abbandonato.
Anche Leslie Gelb, presidente emerito del Council for Foreign Relations, pur scrivendo che «il mondo ha ancora bisogno di un leader», arriva poi a conclusioni solo in parte diverse da queste. Lo fa in un articolo su Current History di novembre, dove prende le distanze dai molti "livellatori", che sembrano credere che vi sia oggi una maggioranza di stati da mettere tutti sullo stesso piano, Stati Uniti compresi.
È vero - dice Gelb - che diverse questioni, dal clima alla sicurezza, sono risolvibili soltanto con la collaborazione di diverse nazioni. Ma questo non significa che per farlo non serva la leadership dei paesi più forti, Stati Uniti in testa. Certo non è più tempo di egemonia e nessuno deve pensare agli Stati Uniti come a un potere dominante.
E tuttavia, se nessuno ha più il potere di imporre le sue decisioni (ammesso che mai lo abbia avuto), per mettere intorno a un tavolo tutti coloro che alle decisioni devono concorrere, per evitare «sterili maratone di multilateralismo», per creare la disponibilità a superare ciascuno le proprie ragioni di veto, occorre che ci sia un leader, e questo leader può essere solo il presidente degli Stati Uniti.
Io credo che anche Calleo e tutti quelli, me compreso, che hanno criticato il vecchio unilateralismo, debbano riconoscersi nell'equilibrato realismo di questo impianto. Magari a qualcuno potrà apparire eccessiva la raffigurazione del mondo come una struttura piramidale, che ha in cima gli Stati Uniti e subito sotto otto paesi, Russia, Cina, India, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito, che sono gli invitati necessari al tavolo delle decisioni, più volta a volta alcuni altri (e neppure fra questi - lo noto tra parentesi - Gelb menziona l'Italia).
È vero però che la conclusione è poi la medesima a cui giungono i multilateralisti, e cioè che gli Stati Uniti devono «tenere nella dovuta considerazione gli interessi degli altri e raggiungere soluzioni compromissorie, tali da assicurare la loro partecipazione e la loro cooperazione».
Se così è, ciò che Obama ha fatto sinora non contraddice, ma realizza le aspettative. Nel criticato viaggio in Cina ha fatto addirittura di più, perché non ha firmato soltanto il documento-piattaforma per la futura cooperazione sino-americana nei campi più diversi compreso quello militare, ma anche accordi specifici sul carbone pulito, l'efficienza energetica e l'auto elettrica (ce ne informa il bravo Claudio Landi, nel suo quotidiano «Buongiorno Asia» del 24 novembre).
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