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IDEE / L'elefante indiano galoppa oltre la crisi

di Martin Wolf

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3 Marzo 2010

Crisi? Quale crisi? Le autorità indiane non sono così supponenti da farsi questa domanda, ma è vero che l'India ha avuto una "buona crisi". Ora quello che deve fare è revocare progressivamente le misure eccezionali introdotte per sostenere l'economia e portare avanti le riforme necessarie per favorire una crescita rapida e diffusa.
Quando Pranab Mukherjee, il ministro dell'Economia, ha presentato la finanziaria la scorsa settimana ha sottolineato che un anno fa l'India aveva di fronte una doppia sfida: la crisi globale e un monsone che aveva portato poca pioggia. Ora può «dire con sicurezza che abbiamo superato bene queste due crisi». Secondo il rapporto sullo stato dell'economia del governo di New Delhi: «Nella seconda metà del 2008-2009, nella finanziaria straordinaria del 2009-2010 e di nuovo tre mesi dopo, nella finanziaria ordinaria del 2009-2010, sono state applicate numerose misure di stimolo. Nel secondo trimestre l'economia ha mostrato segnali di un'inversione di rotta e ora che ci avviciniamo alla fine dell'anno l'India sembra avviata a tornare rapidamente agli anni di espansione precedenti al 2008». Nell'anno finanziario 2008-2009, il prodotto interno lordo dell'India è cresciuto del 6,7%. Quest'anno la crescita, secondo le previsioni, dovrebbe attestarsi sul 7,2%. Se l'economia indiana è riuscita a sopravvivere quasi incolume a questa prova, perfino gli analisti più prudenti hanno ragione di guardare al futuro con più ottimismo.
Lo stimolo ha i suoi costi. Il deficit di bilancio del governo centrale è cresciuto dal 2,6% del Pil nel 2007-2008 alla cifra provvisoria del 5,9% nel 2008-2009, e quest'anno si stima che arriverà al 6,5%. Se si includono nel conteggio i singoli stati della federazione, il disavanzo è balzato dal 4% del Pil nel 2007-2008 all'8,5% nel 2008-2009, con una previsione del 9,7% per quest'anno. Il Pil nominale indiano è cresciuto a un ritmo medio del 14% fra il 2004-2005 e il 2009-2010. Con questa crescita, disavanzi del 10% del Pil sono abbastanza sostenibili. Magari fosse così, ad esempio, anche per il Regno Unito.
In ogni caso, portarsi dietro disavanzi del genere non è consigliabile. Innanzitutto c'è da dire che gran parte della spesa (in particolare quella relativa ai sussidi per i fertilizzanti, per i prodotti alimentari e per il petrolio) è male indirizzata. In secondo luogo, i risparmi del settore pubblico sono precipitati dal 5% del Pil nel 2007-2008 all'1,4% nel 2008-2009. È una tendenza che bisogna invertire.
Prima della crisi il tasso di risparmio lordo nazionale aveva raggiunto il 36% del Pil. Considerando la capacità dell'India di attirare capitali esteri a lungo termine, questa cifra consentirebbe un tasso d'investimenti vicino al 40% del Pil. Un tasso d'investimenti tanto alto potrebbe produrre una crescita del 10%, e anche di più: considerando che la produzione pro capite dell'India (a parità di potere d'acquisto) è circa 1/15 di quella degli Stati Uniti, le potenzialità per una crescita rapida sono enormi.
Ho visto con i miei occhi la portata di questo ottimismo il mese scorso, quando ho trascorso una settimana in India. Fra i momenti più significativi c'è stata la conferenza su una raccolta di saggi in onore di Montek Singh Ahluwalia, vicepresidente della commissione programmazione economica e mio caro amico da 39 anni, il personaggio più influente dell'economia indiana negli ultimi vent'anni dopo il primo ministro Manmohan Singh.
Sono rimasto colpito dal tono ottimistico del saggio su Performance e politiche macroeconomiche, 2000-2008, di Shankar Acharia, ex capo dei consulenti economici per il governo indiano. Acharya è il più prudente fra i principali analisti indiani. Il saggio dà un'idea chiara della grande fiducia dell'élite tecnocratica indiana nella performance e nelle prospettive del paese. Una fiducia dello stesso tipo si avverte fra l'élite imprenditoriale. È un aspetto che fa dell'India odierna qualcosa di radicalmente diverso da quella che conoscevo quando ero l'economista capo della divisione India alla Banca mondiale, a metà degli anni 70. L'emergere di un consenso fra le élite sulla direzione assunta dal paese è evidente a chiunque si rechi regolarmente in India. Entrando nel ministero del Commercio, bastione degli avversari dell'apertura dei mercati negli anni 70, sono rimasto colpito da un manifesto che descriveva l'India come «la più grande economia di mercato del mondo».
Un altro aspetto è la convinzione che il pragmatismo delle politiche indiane, specialmente sulla finanza globale e la bilancia dei pagamenti, si è dimostrato giusto. Le persone che hanno il compito di dirigere un paese enorme, con un così alto numero d'individui vulnerabili, sono giustamente reticenti a rendere la loro economia ostaggio delle tendenze sociopatiche del settore finanziario. Questo era il tema di un saggio di Rakesh Mohan, ex vicegovernatore della Banca centrale indiana, la Reserve Bank of India.
Ma la prudenza non può essere inerzia. L'elenco di riforme di Acharya include giustamente «infrastrutture, agricoltura, leggi sul lavoro, banche, energia, istruzione e commercio al dettaglio». Fortunatamente, un paese grande quanto l'India sarebbe in grado di sostenere una crescita rapida anche se il contesto esterno continuasse a essere meno favorevole di prima. Ma questo renderebbe ancora più urgente eliminare gli ostacoli interni.
Anche il contesto esterno conta, da almeno tre punti di vista. Primo, l'India ha seguito la Cina aprendosi molto di più agli scambi. Il rapporto fra scambi di merci e servizi e Pil nel 2008 era ai livelli in cui era in Cina nel 2003. Secondo, l'India dipende dall'accesso a materie prime di altri paesi, in particolare l'energia. Infine, l'India ha bisogno di pace.
  CONTINUA ...»

3 Marzo 2010
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