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Vivere ai livelli attuali? Serviranno tre Terre

di Mario Margiocco

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3 Ottobre 2009

«I modelli economici raramente tengono conto della terza variabile. C'è il capitale, c'è il lavoro, ma la Terra viene in genere dimenticata. Ora, se pensiamo di trasferire così come sono i nostri modelli economici al 2050, quando la popolazione ci dicono i demografi raggiungerà il picco di 9, forse 9 miliardi e mezzo di uomini e donne, ci sbagliamo di grosso».
Partha Dasgupta, sir Partha dal 2002 quando la regina lo ha insignito del titolo «per meriti nella disciplina economica», ha creato a Cambridge, dove ha studiato e dove insegna, una robusta scuola che coniuga economia, ambiente e sviluppo. Era nei giorni scorsi a Milano dove ha tenuto una conferenza su Risparmi per il futuro (Saving for the future) su invito della Fondazione Mattei.
Nato 67 anni fa a Dhaka, allora India e oggi Bangladesh, ha anche insegnato filosofia a Stanford, negli Stati Uniti. E insieme a una solida base matematica, un biglietto da visita da mezzo secolo inevitabile fra gli economisti, ha mantenuto un approccio che sposa econometria, quanto di più concreto e numerico esista nella disciplina, e pensiero, risposta ai quesiti eterni. Ha raggiunto i vertici della professione, presidente della Royal economic society prima e poi della European economic association.
L'economia aiuta a renderci conto di quanto possiamo dire su problemi che si riveleranno davvero solo in un futuro lontano, ricorda spesso Dasgupta, che ha scritto saggi importanti su sviluppo e ambiente, povertà e ambiente, e un libretto efficacissimo, dove raccoglie la summa del suo pensiero economico, Economics. A very short introduction (traduzione italiana Economia, Una breve introduzione, edizioni Vita e Pensiero). «Ora, quando la Terra avrà raggiunto il massimo della popolazione, la ricchezza prodotta ogni anno cioè il prodotto interno lordo, dovrebbe essere - se manteniamo gli stessi ritmi di crescita e se vogliamo il pieno impiego - tre, quattro volte superiore a oggi. Potrà razionalmente accadere? Non credo. Certamente l'ambiente e le risorse della Terra, per quanto l'ingegnosità umana possa essere eccezionale, non lo consentiranno».
«Il problema quindi è chiaro, anche se non semplice - conclude Dasgupta -. Sarà necessario prendere atto di un decoupling tra produzione e lavoro, perché non tutti potranno lavorare a pieno ritmo, con i livelli di produzione ai quali siamo abituati. È per l'economia un terreno ignoto. Ma occorre porsi il problema».
Partha Dasgupta appartiene a quella scuola di economisti, vicino in questo a Joe Stiglitz, Amarthya Sen e a una crescente minoranza - sempre meno convinti che il Prodotto interno lordo sia la migliore misura della crescita economica. «Se dico che oggi il Pil è superiore del 5% rispetto a una data passata, sembra un notevole progresso. Ma quale è quella data? Vicinissima, tre anni, quattro al massimo. Vivevamo così male quattro anni fa? No, più o meno come oggi. Allora, il Pil è affidabile, riflette qualcosa di reale fino in fondo, oppure è una misura parziale e imprecisa?»
In un momento di passaggio della teoria economica, scottata dalla profonda crisi della finanza e dei modelli che l'hanno favorita, economisti come Dasgupta hanno una percezione più lucida, sostiene Bernardo Bortolotti, economista e direttore della Fondazione Mattei. «Dasgupata ha i vantaggi di un profilo misto in un momento di cambio di paradigma. Un economista di prima grandezza, che ha usato e sa usare tutti gli attrezzi del mestiere, ma anche guardare oltre l'orizzonte. Mentre la professione sta riflettendo, dopo gli scossoni della crisi finanziaria, è una carta in più».
Di carte in più il professor Dasgupta ne ha almeno due: la prima, che condivide con altri, asiatici soprattutto, è quella di essere a casa sua sia nel mondo di origine, quello asiatico nel suo caso, che a Cambridge, Stanford e in tutto l'universo accademico occidentale. L'altra è quella di non avere mai fatto parte, nonostante gli studi matematici, della numerossisima scuola che a un certo punto ha cercato di interpretare il passato e purtroppo anche il futuro dell'economia sull'unica scorta di eleganti logaritmi. Per ritrovarsi poi a dire, come continua a fare il massimo practitioner di questa scuola, l'ex governatore della Federal reserve Alan Greenspan, che la tempesta sui mercati è stata un fatto a cadenza secolare, più o meno, imprevisto e imprevedibile perché i modelli avevano lasciato scoperto proprio quello spazio, piccolo, nel quale la crisi si è infilata. Come se un pilota si giustificasse con le deficienze del pilota automatico dopo un atterraggio senza carrello. Ma chi era ai comandi?
«Gli Stati Uniti hanno ricevuto il colpo più duro, il Regno Unito segue perché è sempre sulla scia americana, magari con dieci anni di ritardo. Mentre l'Europa continentale, ugualmente colpita, ha però nelle sue infinite diversità una risorsa - dice Dasgupta - che potrebbe in futuro essere preziosa.»
Oggi l'evoluzione del pensiero economico, orfano dei mercati razionali che razionali non sono, si fonde con l'evoluzione dell'economia. Cambiano entrambi contemporaneamente. E guardando a un futuro non lontano, ma pur sempre oltre l'orizzonte, Dasgupta ritiene che sarà l'Europa a poter offrire le risposte più adeguate. «Negli Stati Uniti non sarà facile abbandonare una concezione in cui il Pil è dominante, se non totalizzante. In Europa invece vedo assai più spazi di innovazione, perché culture assolutamente di mercato convivono da sempre con culture più sociali. E questo secondo me sarà una forza quando si presenterà, inevitabilmente, un nuovo rapporto tra produzione e lavoro».
  CONTINUA ...»

3 Ottobre 2009
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