Gli storici sanno come avere sempre ragione. Non si stancano mai di ripetervi che tirare le somme del decennio è soltanto una retro-comodità; che qualunque generalizzazione sulle caratteristiche che lo definiscono può subito cadere davanti a contro-generalizzazioni altrettanto valide. Gli anni 50? Conservatori compiaciuti, e anche giovani arrabbiati. Gli anni 60? Minigonna e maxicapotto, Mary Quant e Biba.
Però il decennio che abbiamo appena vissuto è stato il primo a causare dissensi sul nome da dargli. La Gran Bretagna ha optato per "Noughties", da nought, zero, ma suonano birbantelli, e gli Stati Uniti per "Aughties" oppure "Oughties", come l'imperfetto del verbo dovere in «Cristo, dovevo aspettarmelo!».
Ma nessuno si aspettava né l'inizio né la fine. Gli scribi del decennio trovano irresistibile che sia racchiuso tra due calamità immense, tra caos e crash, sotto il segno di un omicidio di massa. Neppure Tacito avrebbe rinunciato a questo racconto morale. Molto tempo fa, gli storici francesi dell'Ecole des Annales ci avevano detto che gli eventi clamorosi - la presa della Bastiglia, l'assassinio di Sarajevo, e le decisioni di singoli individui, fossero anche Roosevelt o Hitler - erano mera spuma sulla cresta delle onde storiche, a plasmare davvero la costa era la forza invisibile delle maree profonde. Sono le influenze a lungo termine a cambiare il mondo.
Non serve un particolare genio analitico per vedere forze storiche di questo tipo all'opera nell'inesorabile impoverimento degli ultimi dieci anni. Si usa di solito la metafora "glaciale", ed è giusta: la ritirata dei ghiacciai e dei manti polari segnala che il principale dato del decennio è stato il degrado fisico del pianeta. Datemi uno scettico, lo porterò a Shanghai o a San Paolo un giorno di smog denso, per vedere come resta scettico mentre la tosse gli fa sputare i polmoni e guarda verso la luce marrone del Sole come attraverso una cupola di vetro sporco e unto. Il lago Baikal è una pozza salina e il Sahara avanza verso Timbuctu. La Terra non sta per tirare l'ultimo respiro, ma ha una brutta cera. Nelle zone più povere del mondo, la pressione demografica non cessa di esercitarsi su risorse degradate o in diminuzione. Non c'è megalopoli - Lagos, Caracas, Rio, Mumbai - senza le sue montagne di rifiuti sulle quale esseri umani simili a capre scheletriche cercano qualcosa da mangiare in mezzo alla plastica nera.
Tutto ciò sembra piantare l'ultimo chiodo nella bara di un ottimismo collettivo nato duecento anni fa, quando i Lumi annunciavano un mondo illuminato dalla ragione, la quale avrebbe debellato ignoranza e povertà, guerre e malattie. Doveva metterci sull'avviso la morte del marchese di Condorcet, massimo profeta di questa laicità giuliva, nel carcere dove le autorità rivoluzionarie l'avevano rinchiuso. Ma la sua amabile ingenuità è stata sostituita da ondate di fiera certezza teleologica - capitalista, marxista, fordista - che ci invitava verso un domani più dolce e soleggiato. Qualunque dubbio nutrisse sul trionfo del proprio modello, nessuno di quei profeti poteva prevedere che nel terzo millennio il maggior ostacolo al suo programma di felicità sociale sarebbe stata una guerra per restaurare un califfato teocratico ed estendere la Sharia all'intero globo. Né che l'arma più temibile di tale campagna sarebbe stato l'abbraccio estatico della strage, conferito come una benedizione ai suoi fautori e una maledizione per i suoi oppositori. Adesso che cosa pensate di fare in proposito? Costringere i militanti a stare in vita? E i mullah a stare più allegri? Farli accomodare in poltrona per subire la tortura dei Monty Python?
Il fatto che convincere certe parti del mondo ad attribuire più valore alla vita che alla morte sembri un compito immane ci dà la misura della resistenza al Partito della vita (per non parlare della libertà e del perseguimento della felicità). È sconfortante pensare che la domanda di apocalisse sia molto più facile da soddisfare della domanda di pace e prosperità. Ma il Partito del martirio potrebbe anche ritenere superfluo abbattere altre torri del capitalismo, ora che i suoi responsabili hanno provveduto da soli a una grandiosa demolizione.
Imprevisto quasi al pari della teocrazia in marcia è stato il richiamo, dalla tomba, della governance finanziaria, strano arnese fuori moda mandato a rottamare mentre spiravano gli anni 90. Il dibattito sul ritorno dei regolatori, o sul loro riarmo con poteri che potrebbero evitarci di cascare nel precipizio la prossima volta che un interessante prodotto finanziario si trasforma in spazzatura, diventerà ancora più vivace l'anno prossimo. Subito dopo che il presidente Obama ha strappato al Congresso una riforma sanitaria ridotta a francobollo, lasciando gli eletti liberi di contemplare il restante panorama di devastazione economica, e non appena un governo conservatore sarà arrivato al potere in Gran Bretagna.
Faute de mieux, il passato recente ha rivelato l'esistenza di una formidabile sentinella contro il delirio teocratico e l'incoscienza capitalistica: il centralismo autocratico degli azionisti cinesi i quali sanno che la caduta dell'economia occidentale sarebbe per loro una vittoria di Pirro.
Un odierno Tacito potrebbe quindi essere tentato di supporre che gli anni Zero hanno percorso la strada che va dalla licenziosità finanziaria al desiderio mondiale di salda leadership, il che spiegherebbe la speranza messianica riposta nel 44° presidente americano (il quale l'ha afferrata, a giudizio di molti suoi ammiratori, con una timidezza sconcertante). Ma la polarità più paradossale di questi ultimi dieci anni potrebbe non essere quella tra anarchia e autoritarismo, bensì tra solipsismo e comunità, tra la solitudine sovrana con gli auricolari dell'iPod e il suo apparente contrario: il bisogno di volti che non siano solo quelli degli amici su Facebook. Mezzo secolo fa, il sociologo americano David Riesman scrisse un notevole trattato sull'alienazione moderna, La folla solitaria. Robert Putnam, un suo successore all'Università Harvard, è giunto a una diagnosi ancora più cupa sul collasso della comunità in Bowling Alone.
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