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QUALE RIPRESA / Il segreto per attrarre i capitali privati

di Giuliano Amato

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4 aprile 2010

Collegata in filo diretto con Stefano Folli su Radio Tre, un'ascoltatrice diceva la sua giovedì scorso sulle ragioni dell'astensionismo elettorale. E c'era in lei una sincera angoscia per la inadeguatezza delle risposte politiche davanti al futuro che ci aspetta, con un'economia che non riesce più a decollare, le imprese senza ordini e i negozi senza clienti. Certo c'è il debito pubblico ed è più che giusto frenarlo, ma che ne sarà di noi se mancheranno risorse e azioni per lo sviluppo? E di questo c'è qualcuno che, al di là delle parole, si sta seriamente occupando in Italia e in Europa?
Ho trovato questa diagnosi ineccepibile e provo, nel condividerla, la stessa angoscia di quella ascoltatrice. Per una serie di ragioni legate alla crisi che abbiamo attraversato, in tutta Europa (e non solo) i bilanci pubblici stanno viaggiando verso e oltre il 100% del Pil. Noi ci eravamo già, siamo stati anche per questo più prudenti degli altri nelle spese aggiuntive e infatti il nostro debito è quello che percentualmente è cresciuto di meno. Certo si è che noi, come gli altri, abbiamo il problema di riprendere il cammino della discesa, e che, come gli altri, rischiamo di trovarci soffocati in un circolo vizioso.

In assenza di sviluppo, la riduzione del debito può avvenire solo riducendo le spese e torchiando i contribuenti, ma in questo modo si può ulteriormente deprimere lo stesso sviluppo e quindi restringere la capacità contributiva dei cittadini, con il risultato di restare dove si è con il debito. Volete una sgradita avvisaglia di questo rischio? Leggete il rapporto finale sull'Italia diffuso dalla missione del Fondo monetario il 30 marzo scorso. Ci dice che per il 2010 l'aspettativa è di un indebitamento netto dello stato che, nonostante le azioni di contenimento della spesa, sarà attorno agli stessi livelli del 2009. Perché? Perché l'economia è stagnante o quasi.

Ma c'è di più. Con debiti pubblici tanto alti in tutto il mondo occidentale, la concorrenza per finanziarli diventa aspra e il mercato inesorabilmente distingue fra paesi più o meno affidabili, bollando i titoli di chi lo è meno come meno sicuri e pretendendo conseguentemente tassi più alti.

È quello che sta accadendo alla Grecia e che non era mai accaduto in passato per i paesi della zona euro, tutti protetti, salvo lievi differenze, dallo "scudo" dell'euro. Ora quello scudo non basta più a nascondere le vistose differenze fra le nostre economie e le nostre finanze pubbliche, e i mercati stanno già occhieggiando i paesi da mettere sotto tiro dopo la Grecia.

Se questo gioco a scacchiera si allarga, le conseguenze possono essere pesantissime. Come sanno gli addetti ai lavori, i titoli pubblici sono la prima merce di scambio di cui dispongono le banche per ottenere liquidità dalla Banca centrale europea e questa, nel pieno della crisi, ha deciso di fornire liquidità in cambio non solo di titoli con "rating" sui gradini più alti contrassegnati dalla A, ma anche di titoli sino a BBB. Fino a quando riterrà di farlo? E che cosa potrà accadere all'economia se le banche si trovassero in pancia montagne di titoli non più accettati e quindi a corto di liquidità?

Io giro per l'Europa sostenendo che questo scenario più fosco non ha ragione di essere temuto per l'Italia, che ha una sofisticata esperienza di "debt management", che non a caso sul terreno dei tassi è trattata dai mercati molto meglio di tanti altri e che ha un potenziale di sviluppo ancora elevato. Ma intanto ci siamo persi anche noi l'avanzo primario (al netto degli interessi lo stato spende di più di quanto incassa) e questo non rassicura i mercati e poi, come tutti gli stati membri dell'Eurozona, potremmo comunque essere colpiti dal soffocamento delle economie di altri paesi della stessa Eurozona. E dunque abbiamo tutti ragione di chiederci che cosa si può fare perché a quel soffocamento non si arrivi.

Ci sono delle responsabilità che ciascuno deve esercitare a casa sua ed è giusto che la Grecia, con le sue 14 mensilità stipendiali e con le retribuzioni che ha concesso nel settore pubblico, stringa i cordoni della borsa. È certo però che, stringi stringi, il bilancio pubblico smette di sostenere anche attività utili e si determinano fenomeni di decadimento che anche in Italia stiamo sperimentando, dalla pulizia delle strade alla manutenzione dei nostri preziosi monumenti.

La realtà è che bisogna stringere e poi anche coraggiosamente riallocare la spesa, perché a quel punto, sia pure in modo traumatico, si possono ottenere risultati positivi, come positiva fu la pur dolorosa ristrutturazione delle imprese private negli anni 90. Si parla di chiusura a fine anno di diverse Università, non più in condizione di pagare gli stipendi. Sarebbe un trauma non piccolo, ma potrebbe uscirne un sistema universitario meno pletorico e migliore. In un recente quaderno di ItalianiEuropei sull'innovazione, Francesco Profumo, rettore del Politecnico di Torino, propone nuove politiche per la ricerca a parità di spesa. C'è anche chi sa ragionare così.
  CONTINUA ...»

4 aprile 2010
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