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Dal Baltico all'Egeo, addio al mito stipendio fisso

di Mario Margiocco

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4 Marzo 2010

Il santuario dello stipendio statale intoccabile non c'è più. E il caso della Grecia, che ha deciso di ridurre di circa il 7% la retribuzione dei suoi dipendenti pubblici, non fa che aggiungersi a un elenco di scelte analoghe inaugurate poco più di un anno fa, fuori e dentro l'area euro.
La storia è incominciata tuttavia non sul Mediterraneo, ma sul Baltico. Secondo una recente analisi della Swedbank di Stoccolma, gli stipendi pubblici della Lettonia, il piccolo paese baltico che ha fatto da battistrada in questa mesta marcia al ribasso, erano scesi nell'ottobre del 2009 ai livelli del 2006. Le riduzioni, fino al 20% nel caso degli insegnanti e di alcune altre categorie, sono state duramente contestate nell'inverno e nella primavera di un anno fa, ma alla fine sono state accettate.
Tutte le previsioni di imminente svalutazione si sono rivelate sbagliate. Il paese ha in qualche modo retto a un crollo del Pil che è stato l'anno scorso di oltre il 17 per cento. I conti con l'estero sono in attivo. E il debito sovrano non è più considerato dalle società di rating ad alto rischio.
Quella che la Lettonia, e in modo non molto dissimile gli altri paesi baltici hanno fatto, è una svalutazione interna. Hanno mantenuto i livelli del cambio, ma ridotto i salari. Quelli reali si sarebbero ridotti ugualmente con svalutazioni che avrebbero innescato l'inflazione.
Il prezzo è stato pesante in termini di livelli di vita, in un'area dove gli stipendi medi si aggirano attorno ai 500 euro. Ma la contabilità nazionale ha tenuto. Come sempre purtroppo distribuire equamente i sacrifici è molto difficile, e un gruppo di hacker che centellina le sue informazioni via twitter alle tv locali lo sta dimostrando.
Come già Il Sole 24 Ore ha riferito (il 27 febbraio), l'intrusione negli archivi del sistema fiscale nazionale rivela che i manager di una banca lettone salvata con il denaro pubblico e i dirigenti di varie imprese di stato non hanno subito i tagli di stipendio o sono stati compensati con bonus riservati, anche quando avevano pubblicamente dichiarato la necessità di sacrifici a tappeto per tutti.
In Irlanda i tagli degli stipendi pubblici, annunciati dal governo a dicembre, fanno parte del duro risveglio dal sogno di trasformare la piccola nazione in un impero finanziario. La proposta del governo diceva: il 5% in meno fino ai 30mila euro di stipendio, fino all'8 per cento per livelli fino a 115mila euro, per arrivare a un massimo del 15% per i grandi funzionari da oltre 200mila euro. Solo che il clima si è guastato quando dopo qualche settimana la progressività per i top men è stata rivista al ribasso. La battaglia parlamentare è stata dura e i voti risicati, ma i tagli restano in piedi. Per Irlanda e Grecia la partita è la capacità di restare nell'area euro, che ha portato a entrambi i paesi enormi benefici, ma obbliga ora a politiche che altrimenti sarebbero state bypassate con una svalutazione della moneta nazionale, non più possibile. Ugualmente il reddito fisso, statali e non statali, sarebbe stato penalizzato, probabilmente più duramente ancora, ma in maniera apparentemente meno dolorosa.
Il caso greco, da mesi sotto il riflettore e che così tanti interrogativi ha sollevato sulla tenuta della moneta unica europea, ha polarizzato l'attenzione su un fenomeno che già esisteva. E che potrebbe riguardare anche altri paesi deboli dell'area sud europea, Portogallo e Spagna, e sfiorare l'Italia, che così debole non è, ma deve seguire con molta attenzione gli eventi.
Probabilmente anche la Gran Bretagna, che ha speso per salvare le sue banche quanto e più degli Stati Uniti, dovrebbe riflettere, se non vuole mettere troppo a rischio una sterlina già debole. Ma finora il cancelliere dello scacchiere Alistair Darling ha chiesto soltanto una riduzione delle indennità di licenziamento, che non potranno più superare le 60 mila sterline, cosa che fanno attualmente per gli stipendi medi e alti, poiché sono calcolate sulla base di tre anni di stipendio. I sindacati sono sul piede di guerra e difendono una serie di prerogative accumulate nel tempo, tra cui quella che riservava agli assunti prima del 1987 – sempre in caso di licenziamento – fino a sei annualità di salario. Il sindacato di categoria, la Public and Commercial Services Union, ha già dichiarato tre giorni di sciopero. La stampa tabloid britannica non risparmia comunque le sue stilettate e fa notare come il segretario del sindacato, Mark Serwotka, abbia guadagnato complessivamente con 110.500 sterline nel 2007 quasi cinque volte il salario medio degli iscritti, che era di 24mila sterline. E questo dopo essersi impegnato, per venire eletto, ad accettare il salario medio sindacale, cosa che avrebbe fatto solo inizialmente.
Riduzioni ai dipendenti pubblici sono state decise o annunciate anche in paesi dell'Europa centrale, come Ungheria e Repubblica Ceca, che al pari dei baltici aspirano a entrare nell'euro e sanno che una svalutazione della moneta allontanerebbe di molto la data. Una svalutazione è resa difficile anche dal fatto che molti cittadini, in questi paesi, si sono indebitati in valuta estera, euro, corona svedese e franchi svizzeri, e qualsiasi svalutazione sarebbe difficile da sostenere. Quindi si preferisce abbassare gli stipendi, a partire da quelli pubblici.
  CONTINUA ...»

4 Marzo 2010
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