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Tutti i dubbi degli orfani di Keynes

di Pietro Reichlin

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4 Marzo 2010

Ai tempi di Keynes la spesa pubblica, in Usa, era circa il 2% del Pil, il debito federale intorno al 3%, il bilancio pubblico in pareggio e gli ammortizzatori sociali inesistenti. Negli ultimi 40 anni il disavanzo pubblico è stato la regola più che l'eccezione, la spesa pubblica si è attestata intorno al 30% del Pil e, dai primi anni 80, il debito federale non è mai sceso al di sotto del 40 per cento.
Nel 2010 la spesa, il disavanzo e il debito federale arriveranno, rispettivamente, al 40, al 14 e al 90% del Pil. La dimensione della spesa pubblica implica che gli stabilizzatori automatici esercitano un effetto correttivo rilevante nelle recessioni, anche in assenza di interventi speciali. Secondo DeLong, una caduta del Pil di 100 dollari determina «automaticamente» 37 dollari di maggiore disavanzo.
Nonostante il furore ideologico dell'epoca di Reagan, la quota della spesa federale sulla produzione non è diminuita in modo significativo e quasi nessuna recessione è stata superata senza misure di sostegno della domanda. La situazione dell'Europa continentale, ove gli ammortizzatori sociali sono più estesi, conferma tali impressioni.
Questi soli fatti dovrebbero convincerci che la teoria keynesiana non ha bisogno di particolari "rivincite". Essa ha sostanzialmente prevalso tra i policymaker, a dispetto della Scuola di Chicago. È vero che la stagflazione degli anni 70 ha smentito chi pensava che uno stimolo continuo della domanda potesse avere effetti positivi e duraturi sull'attività economica. Ma la smentita va interpretata come un ritorno al buon senso, piuttosto che una sconfitta della teoria keynesiana.
Se veramente bastasse spendere soldi pubblici o stampare moneta per sollevare il tenore di vita delle famiglie, avremmo già risolto il problema del sottosviluppo. La maggior prudenza con cui è stata usata la politica fiscale in disavanzo a fini anti-recessivi dagli anni 80 in poi si deve al timore concreto di destabilizzare i bilanci pubblici.
Anche questa non è una smentita di Keynes. Le politiche fiscali anticicliche sono più efficaci se il disavanzo e il debito dello stato sono contenuti. Inoltre, non possiamo ignorare la tendenza dei governi a trasferire i tributi fiscali sulle generazioni future.
Non tutti gli economisti sono convinti dell'efficacia dello stimolo fiscale. Molti sostengono che, se la spesa pubblica viene finanziata in disavanzo, cioè con emissione di nuovo debito pubblico, essa sottrae risorse alla spesa privata per investimenti e consumi. Le politiche fiscali di stimolo della domanda sono efficaci solo se il risparmio privato aumenta in misura tale da evitare che ogni euro in più di spesa pubblica sia compensato da un euro in meno d'investimenti e consumi. A sua volta, il modo in cui il risparmio privato reagisce all'aumentare della spesa pubblica dipende da fattori contingenti: dallo stato dei mercati finanziari, dall'avversione al rischio degli investitori, dalle aspettative delle famiglie.
Se il passato fosse sempre una buona guida per il futuro, dovremmo concludere che il moltiplicatore della spesa pubblica sia piuttosto basso (non molto diverso da uno) e che gli effetti si esauriscano rapidamente. Ma la teoria keynesiana non è in grado di dirci qual è il valore del moltiplicatore indipendentemente dal tipo di recessione che dobbiamo affrontare, e i problemi di oggi potrebbero essere diversi da quelli del passato.
Mentre la Bce apprezza le misure varate dalla Grecia e valuta se lasciare invariati i tassi, in questo momento i bilanci pubblici dei governi sono particolarmente appesantiti dalle troppe promesse dei governi: opere pubbliche, ammortizzatori sociali, spesa sanitaria, riduzione delle tasse e salvataggi delle istituzioni finanziarie. I margini di manovra per un ulteriore aumento di spesa sono quindi limitati. Tuttavia, vi sono almeno due aspetti della congiuntura che potrebbero spingere verso un uso più intenso della spesa pubblica.
Il primo aspetto è che, secondo alcuni, la politica monetaria ha esaurito le sue cartucce. I tassi nominali a breve sono al minimo e l'inflazione è trascurabile. Ulteriori immissioni di liquidità da parte delle banche centrali potrebbero essere poco efficaci.
Questa è l'opinione del capo economista dell'Fmi, Olivier Blanchard, secondo cui siamo di fronte a una «trappola della liquidità» e, per tale motivo, dovremmo tornare alla politica fiscale. Tuttavia, i tassi a lunga sono ancora elevati e la politica monetaria può fare ancora molto per stimolare il credito con il quantity easing.
Il secondo aspetto è stato recentemente suggerito da un economista di Chicago: John Cochrane. La recessione del 2008 è caratterizzata da un collasso del mercato finanziario. I risparmi delle famiglie non arrivano alle imprese perché le istituzioni finanziarie fanno "incetta" di attività liquide e hanno paura di prestare a lungo termine.
Questa resistenza si deve in gran parte a un aumento dell'avversione al rischio dovuta a mancanza di fiducia. Il risultato è un eccesso di domanda di titoli di stato (gli unici strumenti privi di rischio) e un eccesso di offerta di attività a più alto rischio emesse dai privati. I governi devono allora offrire tutti i titoli pubblici che le istituzioni finanziarie e i risparmiatori domandano sul mercato e comprare i titoli rischiosi a lungo termine che esse rifiutano.
  CONTINUA ...»

4 Marzo 2010
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