Il sì irlandese è arrivato, grazie ad esso il Trattato di Lisbona è ora in dirittura d'arrivo e gli europeisti come me tirano un respiro di sollievo. Intanto non era un sì scontato. A chiederlo era il governo di Dublino più impopolare dalla nascita dell'Irlanda indipendente, c'erano e ci sono parecchi malumori nel paese per i previsti tagli di bilancio e per il piano di sostegno alle banche con i soldi dei contribuenti, il rischio del no era dunque elevato e la sua sconfitta rappresenta un bel successo dell'Europa. Inoltre, anche i timori per le manovre architettate dal presidente ceco Klaus a questo punto un po' si diradano. Si sa che Klaus vorrebbe tenere il Trattato bloccato davanti alla Corte costituzionale di Praga fino alle elezioni britanniche e si sa che, in tal caso, il previsto vincitore Cameron promuoverebbe un referendum in Gran Bretagna, che il Trattato lo ucciderebbe all'ultima curva.
Tuttavia, con il sì irlandese alle spalle, si pensa che sia difficile per Klaus resistere alla pressione della stragrande maggioranza degli stati membri ed è ben possibile che già fra poche settimane, e quindi ben prima del nuovo governo britannico, la partita di Lisbona sia chiusa. Ammesso che davvero vada così, saremo in grado di avvalerci al meglio delle innovazioni introdotte dal Trattato e avremo dunque quell'Europa più democratica, più efficiente e più autorevole che esse intendono promuovere? Le aspettative di un'Europa migliore riguardano i temi più diversi, ma è indubbio che il terreno su cui il mondo intero l'aspetta al varco è quello della politica internazionale e quindi del suo ruolo in tempi di profondo cambiamento dei protagonisti e del rispettivo peso sulla scena mondiale.
Noi europei siamo entrati nel nuovo secolo ancora abituati all'eurocentrismo del tempo che fu. E troviamo tuttora naturale che nei consessi internazionali buona parte dei seggi (ben la metà nel pur declinante G-8) siano occupati da noi. Forse ci illudiamo che questo moltiplichi la nostra forza, ma in realtà esprime e rende evidente a tutti la nostra debolezza. Agli occhi degli altri partecipanti, quale autorevolezza possono avere tanti europei che spesso litigano fra di loro, che messi insieme non sono frequentemente in grado di far valere una posizione dell'Europa di cui parlano e che - anche questo conta nel mondo - neppure sono in grado di dotarla di una rispettabile forza militare?
Non a caso nelle analisi dedicate ai miglioramenti che sono necessari e che il Trattato di Lisbona potrebbe consentire la politica estera è generalmente in testa alla lista. Si conta sull'Alto rappresentante che assommerà nelle sue funzioni la politica estera dettata dal Consiglio e le relazioni esterne della Commissione, si conta sulla creazione del servizio diplomatico comune che dovrebbe definire strategie geopolitiche pensate finalmente in chiave europea e non di sommatoria delle strategie nazionali e si conta sul presidente non più semestrale, ma stabile del Consiglio europeo, che di quelle strategie, insieme all'Alto rappresentante, dovrebbe essere il portatore.
Non sarò io a negare la potenziale importanza di tutto questo. E del resto, gli stessi governi ne hanno preso coscienza, tant'è che da tempo si occupano della attribuzione dei nuovi incarichi. Ma possiamo ritenere che essi condividano anche lo spirito unificante che le novità dovrebbero portare con sé e quindi il progressivo passaggio a una politica estera effettivamente integrata? Incontriamo qui il vero e proprio paradosso dell'Europa che abbiamo davanti. Da una parte il Trattato di Lisbona che si avvia forse al traguardo finale, carico ancora di tutte le aspettative che portarono alla sua stesura. Dall'altro la realtà politica degli stati membri, che sta contestualmente evolvendo in una direzione a dir poco divergente da tali aspettative.
La trasformazione più preoccupante è quella che sta accadendo in Germania e cioè nel paese che dopo il nazismo e la seconda guerra mondiale aveva affidato la sua stessa ri-legittimazione alla cornice dell'integrazione europea e che di tale integrazione era stata ben più della Francia il vero motore. La Germania di Helmut Kohl, l'ultimo dei grandi leader europeisti tedeschi, sacrificò all'Europa la sua moneta, quel marco che ne simboleggiava la solidità e l'acquisita supremazia economica continentale. Oggi il paese è cambiato. Non è certo diventato antieuropeo, ma c'è in esso una nuova generazione che ragiona in termini di interesse nazionale, di salvaguardia delle competenze nazionali (e ancor più di quelle dei Laender) e che non sente più il bisogno di appoggiarsi sull'Europa. Può darsi che il nuovo alleato di governo di Angela Merkel, il partito liberale di Guido Westerwelle, introduca una qualche iniezione di maggiore europeismo. Certo si è che la forza trainante nella politica tedesca è passata ormai nelle mani del localismo dei Lander e questa è una forza che l'europeismo lo frena, non lo promuove.
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