«Le donne che si definiscono più laiche mi dicono: "Non ci piace la tua lista, è troppo islamica, non ti voteremo". Le donne più integraliste, invece, mi rimproverano: "Con tutto quel trucco, le tue comparsate televisive, i tuoi discorsi in pubblico non sei abbastanza islamica". Che dire? forse sono nella giusta posizione per essere eletta».
Salam Semesem sorride. Nella sua abitazione di Hai al-Benaaq, giusto di fronte allo sterminato quartiere sciita di Sadr City, uno dei più degradati di Baghdad, inizia la conversazione parlando dei suoi libri preferiti di Alberto Moravia. Quando il boato di un'esplosione nelle vicinanze (il terzo attentato della giornata) zittisce la gente a tavola, si limita a ribattere: «Ci siamo abituati, per noi è routine quotidiana». Poi prosegue sulla traduzione araba dello scrittore italiano.
Forse ha ragione lei. Immaginarla integralista è improbabile; le sue aperture e la sua pungente autoironia non sono tratti comuni in una donna che ha sposato una versione radicale dell'Islam. Laica comunque non lo è, e non solo per le sue vesti. «Chi ha detto che l'Islam è una religione coercitiva?» domanda. «Io mi sento vicina all'Islam scientifico e non certo a chi lo usa come paravento per giustificare brutali tradizioni arcaiche, come il delitto d'onore e la degradazione della condizione femminile. Musulmana e attivista per le donne non sono una contraddizione». Madre di tre figli, 50 anni, consigliere economico del governo, Salam è appena tornata dalla Giordania. Il suo nome compare nella lista della coalizione sciita Iraqi national Alliance (Ina), l'avversario più duro dell'altra coalizione sciita del premier Nouri al-Maliki, lo State of law. «Certo molte persone mi identificano con il Consiglio supremo islamico iracheno (Isci, il partito più religioso presente nella coalizione, ndr) ma io mi ritengo un candidato indipendente. E questa volta ce la farò a essere eletta, anche alcuni cristiani mi hanno assicurato di votare per me».
Il coraggio certo non le manca. Con il suo temperamento esuberante, sapeva di andare incontro a minacce; non immaginava, però, che potessero provenire dal suo ambiente di lavoro. «"Se non rinunci subito alla tua candidatura uccideremo te e i tuoi figli e distruggeremo la tua casa". Immaginatevi, l'e-mail era stata inviata dall'indirizzo di posta usato dal personale governativo. Non hanno neanche avuto l'accortezza di usare un indirizzo diverso».
Salam è una delle 1.800 candidate donne su cui domenica si pronunceranno gli elettori iracheni chiamati a rinnovare il Parlamento. Grazie a una legge irachena, ispirata dalla Casa Bianca, alle donne spetta di diritto il 25% dei seggi (82). In base a quante saranno elette e a quante ricopriranno incarichi nel nuovo esecutivo si avrà una parziale indicazione se l'Iraq ha davvero intrapreso il cammino della democrazia.
Certo i tempi d'oro dell'Iraq sono un ricordo lontano. Già negli anni 30 diverse donne erano laureate in medicina, un primato in Medio Oriente. E alla fine degli anni 50, quando la monarchia fu rovesciata con un colpo di stato, a una donna fu affidato l'incarico di ministro. Le cose sono poi drasticamente cambiate, soprattutto dopo la caduta di Saddam, nel 2003, e l'ascesa dei partiti conservatori sciiti e dell'estremismo sunnita.
Quest'anno le candidate irachene sono agguerrite. Le strade di Baghdad sono tappezzate di manifesti elettorali. Le immagini con i volti dei candidati occupano ogni possibile angolo, qualcuna ricopre anche i cartelli stradali. I manifesti elettorali delle donne sono moltissimi, quasi quanti quelli degli uomini. Il contrasto curioso: come quello tra l'immagine della candidata Salama al-Khafaji ricoperta da un manto nero mentre indica ai fedeli la preghiera, accanto alla capigliatura bionda e ai vestiti di foggia occidentale dell'altra candidata Masoun al-Damalouji. Un segno di cambiamento. Nelle precedenti elezioni molte candidate non mostravano il volto sui manifesti elettorali. La paura di una rappresaglia dei fondamentalisti prevaleva. Al loro posto veniva affissa l'immagine dei mariti. Solo un anno fa, nelle elezioni provinciali del gennaio 2009, Liza Nisan, candidata cristiana si lamentava: «Ho paura di appendere la mia foto a causa delle minacce. È una società maschilista».
«Non illudiamoci di aver fatto così tanti progressi – puntualizza Salam mentre si aggiusta il grazioso hijab fiorito – il 25% non significa che vi sia una parità. Le discriminazioni ci sono ancora e la maggior parte delle donne ricopre ruoli di basso profilo. Ma non voglio occuparmi delle donne, voglio occuparmi dell'economia, è tutta la mia vita e chiedo solo di essere valutata in base alla mia esperienza e non al mio sesso».
Di donne invece vuole parlare Azhar al-Shakly, sunnita, candidata nella lista dell'ex premier iracheno sciita Iyad Allawi, Iraqiya, la coalizione più laica in cui compaiono anche diversi sunniti moderati. «Abbiamo un sistema democratico - ci spiega dal suo grande ufficio nel quartiere sciita–sunnita di Jadriya. Ed è già una novità. La quota del 25% non l'hanno voluta gli Stati Uniti ma noi donne irachene». Più schiva di Salam, Azhar è una donna proveniente da un'importante famiglia sunnita. Ha già ricoperto l'incarico di ministro per le donne. «È vero, le donne occupano posizioni di basso profilo. In Iraq, per esempio, ci sono molte università, cinque solo a Baghdad. Perché non esiste un rettore donna, e perché i ricercatori sono quasi tutti uomini? Bisogna cambiare».
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