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Lo yuan val bene una trattativa

di Clive Crook

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6 aprile 2010

Il Tesoro Usa ha annunciato questo fine settimana che rimanderà la pubblicazione (prevista per questo mese) di un rapporto che avrebbe probabilmente incluso la Cina fra i paesi "manipolatori di valuta". La sentenza - pronunciata ogni sei mesi - minacciava, e non era la prima volta, di mettere a dura prova le relazioni fra Washington e Pechino. L'amministrazione Obama non vuole mettere a rischio i progressi realizzati su altre questioni e spera, nonostante tutto, di riuscire a risolvere il problema del renminbi con una soluzione consensuale.

La posticipazione è una decisione saggia, e la speranza è che sia prorogata ulteriormente. Hu Jintao, il presidente cinese, ha annunciato che prenderà a parte a un vertice sulla sicurezza nucleare previsto a Washington per questo mese. Gli Stati Uniti continuano a sperare che Pechino appoggi le sanzioni contro l'Iran. Sacrificare gli accordi raggiunti su questo e su altri punti solo per compiere un gesto fine a se stesso sul problema dello yuan, o ancora peggio per innescare un'escalation di dispute commerciali, sarebbe una follia.

È indiscutibile che la politica di cambio adottata dalla Cina costituisce un danno per i suoi partner commerciali. Se le minacce statunitensi avessero qualche possibilità di risolvere il problema si potrebbe dire: avanti con le minacce. Anche tralasciando la necessità di accordarsi con la Cina su altri temi, c'è da dire che questo approccio difficilmente porterebbe a qualcosa. L'America deve esercitare le sue pressioni in modo più intelligente.

La Cina non sta solo manipolando la sua valuta: lo sta facendo in un modo che danneggia le altre nazioni e viola lo spirito dei suoi obblighi internazionali. Secondo quasi tutte le stime, il renminbi è sottovalutato nella misura del 20-40 per cento. La Cina ha tenuto in piedi questa situazione con massicci interventi sui mercati valutari, e ha preso provvedimenti per tenere a freno l'inflazione (e l'aumento del tasso di cambio reale) che questa politica avrebbe altrimenti prodotto. Pechino ha portato avanti in modo determinato e deliberato una politica di sottovalutazione competitiva.

Una politica del genere equivale a una combinazione di dazi all'importazione e sussidi all'esportazione: siamo di fronte a un caso esplicito di protezionismo. Come ha scritto sul Financial Times Arvind Subramanian del Peterson Institute, le regole della Wto vieterebbero una politica del genere, se essa venisse portata avanti in due fasi distinte. La sottovalutazione strategica fa entrambe le cose in un colpo solo, ma sfugge alle sanzioni della Wto.

La Cina fa parte dell'Fmi oltre che della Wto. L'Fmi teoricamente avrebbe il dovere di monitorare e prevenire macrosquilibri come quelli a cui Pechino ha contribuito con la sua politica. Tra i compiti di questa istituzione, che la Cina riconosce, rientra la sorveglianza dei tassi di cambio, ma nella pratica il Fondo ha rinunciato a svolgere la funzione. La politica dei cambi cinese mette a nudo una falla del sistema economico internazionale e delle istituzioni create per sovrintendere a esso.

Comprensibilmente, molti parlamentari americani non credono sia possibile rimediare al problema attraverso il dialogo. Per costringere la Cina a cambiare la sua politica, dicono, gli Stati Uniti devono minacciare un'azione unilaterale contro le sue esportazioni.
Potrebbe funzionare, ma sarebbe un azzardo clamoroso. Se minacci qualcosa, devi essere pronto a farla. Pechino è molto suscettibile alle critiche provenienti da altri paesi, ed è attenta a qualunque accenno di debolezza. I cinesi si piegherebbero? Se non lo facessero, e gli Usa imponessero dazi alle importazioni, e la Cina replicasse a sua volta con altre misure ritorsive, che cosa succederebbe? È uno scenario catastrofico per l'economia globale, un saggio sul come trasformare una ripresa fragile nel tracollo senza fine che il mondo è appena riuscito a evitare. Oltre a tutto ciò, le implicazioni geopolitiche di una spaccatura fra Washington e Pechino potrebbero essere ancora più gravi delle conseguenze economiche.

Sulle politiche di spesa e su altri argomenti, la Cina ha dimostrato di essere in grado di collaborare, ma non è un paese disposto a lasciarsi intimidire, ed è geloso della propria sovranità fino a rasentare l'irrazionalità. È una mentalità che gli Usa, più di ogni altro paese, non dovrebbero faticare a capire. Per valutare quante probabilità vi siano che la Cina ceda alle intimidazioni, il Congresso americano dovrebbe provare a domandarsi come reagirebbero gli Stati Uniti se la Cina li minacciasse. Le possibilità che l'uno o l'altro faccia marcia indietro sono più o meno le stesse.

Correggere il sistema globale con il concorso della Cina, su un piano di parità, probabilmente è una strada più produttiva e che comporta meno rischi. Il G20, di cui fa parte la Cina, funziona. La crisi ha offerto l'opportunità di fare passi avanti sulla riforma di assetti e istituzioni internazionali. Gli Usa devono trovare la collaborazione dei partner per introdurre procedure più rigide che consentano all'Fmi di affrontare gli squilibri delle partite correnti.

  CONTINUA ...»

6 aprile 2010
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