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I MERIDIANI SUL GIORNALISMO / GLI ARTICOLI DEL SOLE 24 ORE
Abbandonati al freddo e alla fame

di Alberto Negri

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3 APRILE 1999

La guerra nei Balcani - Un'ondata di profughi si abbatte dal Kosovo su Macedonia e Albania: sale il numero dei morti. Al confine con Skopje manca ogni assistenza internazionale - I cecchini serbi fanno fuoco su chi cerca di tornare indietro

(DAL NOSTRO INVIATO)
DJENERAL JANKOVIC - 32, 30, 21: le mani di Violeta Ajazi tremano mentre scrivono questo numero sul taccuino, la richiesta di una telefonata in Italia: <Avverti i miei cugini che siamo qui, dateci una mano>. É quasi irriconoscibile questa attrice giovane e bella che sul palcoscenico del teatro di Pristina era una delle più amate e corteggiate. <Ci hanno caricati sul treno come animali, quando siamo arrivati qui non abbiamo trovato nulla, da tre giorni dormiamo all'aperto, ogni tanto qualcuno ci getta del pane per terra, ma non siamo bestie, siamo anche noi figli dell'Europa. Mi vergogno del mio stato, di quello dei miei fratelli>. Questa notte hanno portato via, avvolti nelle coperte, cinque cadaveri, tre erano bambini.
Le lacrime amare di Violeta mi accompagnano fra i venti-trentamila ammassati sui prati di Djeneral Jankovic, nella terra di nessuno al confine tra il Kosovo e la Macedonia. Una catastrofe umanitaria voluta da Milosevic ma anche un fallimento delle organizzazioni di assistenza internazionali, un errore di calcolo clamoroso dei comandi militari che forse non hanno valutato le conseguenze dei bombardamenti e la reazione di Belgrado. Una sconfitta per l'Occidente più bruciante e brutale di una battaglia persa.
C'era una volta la Jugoslavia, ma da oggi si dovrà parlare anche e soltanto di un ex Kosovo, svuotato di albanesi, con una capitale ridotta a una città fantasma. Pristina e i suoi 250mila abitanti albanesi stanno arrivando tutti qui, sbucano a piedi dall'ultima curva del treno, quando i binari della ferrovia piegano leggermente verso sinistra ed entrano in territorio macedone. I serbi aprono i vagoni a cinque chilometri dal confine e poi li incamminano sulle traversine, tenendoli a bada con i fucili.
A neppure cinquecento metri in linea d'aria da dove sono schierate le forze della Nato, gli snipers di Belgrado si sono appostati sulla vecchia cementeria: se qualcuno dei profughi albanesi devia dal percorso stabilito o cerca di tornare indietro esplodono gli ultimi colpi in canna della pulizia etnica. Guardando la linea del fronte e le truppe dell'Alleanza ben armate ed equipaggiate, forse anche al più sprovveduto degli strateghi sarebbe venuto in mente di realizzare un corridoio umanitario: o anche questo è troppo? Solo grazie all'interessamento personale del tenente Fabrizio Centofanti vengono distribuite dal contingente italiano mille razioni di emergenza e decisa un'assistenza medica di urgenza.
All'ultima stazione i serbi stracciano ai deportati i documenti di identità e portano via gli ultimi soldi. Violeta nel quartiere di Vranja aveva una bella casa e un'esistenza di quelle che noi chiameremmo borghese. Di quella vita non rimane più nulla, laggiù ha perso tutto, anche il padre Rexhep, giornalista radiofonico: <Andate via, ha detto a me e a mia madre, io resto qui>. Forse perché già sapeva che i serbi non lo avrebbero mollato facilmente: per professionisti e intellettuali il trattamento riservato da Belgrado è diverso dall'espulsione.
Tra il fango e gli escrementi di questo accampamento senza tende, dove tutti dormono al l'addiaccio, i vecchi contadini albanesi sistemano lo strame delle fascine per stendere i malati e accudire le madri con i piccoli. Arrivano le famiglie ma anche anziani soli, senza nessuno, come una coppia di paraplegici, i fratelli Sulyemani, su una barella di legno improvvisata. Un popolo in cammino che alla prima stazione fuori dal tiro dei serbi non trova nessun conforto, nessuna assistenza. Dall'alto le guardie antisommossa macedoni li spingono giù dal costone della collina, ogni tanto nasce qualche tafferuglio, ma le condizioni sono talmente disumane che è quasi sorprendente non sia scappato ancora il morto.
L'Alto commissariato dei profughi (Onhcr), l'organizzazione dell'Onu che dovrebbe essere la prima ad arrivare in questi casi, non ha ancora fatto niente. Non si vedono tende, medici, razioni di emergenza. Soltanto qualche lussuoso gippone con le insegne blu e le antenne radio alte due metri installate sulla prua che sgomma sulla statale. I kosovari sopravvivono soltanto grazie alla solidarietà dei loro fratelli albanesi della Macedonia che trasportano pane, mobilitano auto e pullman per tirarli fuori, appena possibile, dalla terra di nessuno. Il vice-muftì della Grande Moschea di Skopje ha lasciato i suoi fedeli senza il sermone del venerdì: in jeans e maglione è venuto anche lui a dare una mano insieme a quelli di El Hilal, la Mezzaluna, organizzazione umanitaria islamica finanziata dai sauditi.
Le tende della Croce Rossa sono soltanto due, due sono anche gli unici medici del campo improvvisato, dell'associazione Médecins du monde. Philippe Jarrousse fa il giro con la cassetta dei medicinali: gli portano due neonati, venuti al mondo su questo prato l'altra notte, ma non fa neppure in tempo a guardarli che deve precipitarsi ad assistere una donna in crisi epilettica. Non c'è da mangiare, non c'è da bere, ci si lava nel torrente, mentre gli snipers serbi continuano a osservare la situazione con il binocolo: una sorta di "Ruanda bianco" in mezzo all'Europa.
  CONTINUA ...»

3 APRILE 1999
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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