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I MERIDIANI SUL GIORNALISMO / GLI ARTICOLI DEL SOLE 24 ORE
Parole disegnate sull'acqua

di Giuseppe Pontiggia

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4 GENNAIO 1998

L'album di Dicembre - Un invito a dubitare delle troppe certezze veicolate da vecchi e nuovi mezzi di comunicazione

«... PAGINA PRECEDENTE
Certo la morte di un uomo, di un solo uomo, puo' indurre a una commozione piu' intensa (parlo di reazione individuale, per non allarmare gli eticamente corretti) di quella suscitata dalla morte di migliaia di persone. L'India raccontata da Moravia offre una testimonianza preziosa in questo senso. Una carestia miete vittime anonime che dimentichiamo piu' rapidamente di una sola persona conosciuta. La morte prematura di una adolescente ispira a John Donne, nei primi anni del Seicento, gli accenti cupi e apocalittici della Anatomia del Mondo, dove si trasforma nella tragedia cosmica di un universo 'uscito dai cardini', mentre sulla Terra tutto si dissolve nella disperazione e nel deserto. Ma cio' che e' credibile in Donne diventa veramente 'incredibile' in quelle confidenze sussurrate a milioni di spettatori cui ci ha abituato la televisione.
Se l'arte della narrativa, come pensava Coleridge, consiste nella «sospensione della incredulita'», direi che quelle frasi ottenevano l'effetto contrario, la acuivano.
E' una beffa provvidenziale del linguaggio che quando si vuole incidere sul bronzo si disegna sull'acqua. E questo accade nelle occasioni piu' solenni. Si annaspa nel tentativo di esprimere quelle cose che Mann chiama eterne e che pero' definisce inesprimibili.
Lascia pero' (a differenza di Wittgenstein e del suo elogio logico-mistico del silenzio) una eccezione: «Eterno e' il mondo delle cose che non si possono esprimere, a meno che si esprimano bene». E chi le esprime bene? L'arte, ma anche l'uomo comune negli stati di grazia del linguaggio, nel miracolo della semplicita', nella elementarita' del dolore. Non pare pero' che questa fosse la condizione degli intervistati.
La penuria di parole adeguate, lamentata da loro in modi quasi risentiti e offesi, e' spia di un altro fenomeno del nostro tempo, l'inflazione verbale. La parola non basta piu' perche' e' stata svalutata. Bisognerebbe rivalutarla. La parola scrittore, ad esempio, andrebbe riservata a pochi tra gli scriventi. Grande scrittore a pochissimi. L'aggettivo 'grande' e' bastato ad Alessandro Magno, che aveva unito in un impero tre continenti. E' bastato a Carlo Magno, che aveva impresso il sigillo di Sacro al Romano Impero. Puo' bastare anche a Strehler.
Sarebbe, una volta tanto, un aggettivo meritato. Piu' che rivoluzionare la regia l'ha semplicemente, nell'Italia del dopoguerra, inventata. Prima era subordinata agli attori, ora li poneva al servizio del testo. Talora finiva per sopraffarli, uniformandone la personalita'. Accusa che gli hanno mosso, non senza ragione, Randone e Albertazzi. Ma resta quello che ci ha dato. Spesso la critica rimprovera a un artista di non essere un altro.
Limitiamoci a quello che ci da'. E quello che Strehler ci ha dato, soprattutto nei primi trent'anni, e' stato rilevante. Tutti gli dobbiamo qualcosa: spettacoli che hanno continuato ad agire nella mente, auscultazione instancabile dei testi. L'unico modo di onorarne l'eredita' non sara' di riproporla ridotta di scala, in una adulatoria e sterile maniera, ma affidarla a un regista non indegno del confronto. Non mummificare Strehler, cercare invece di emularne l'opera con scelte inevitabilmente diverse. Lo stesso regista non pare coltivasse una idea egotistica di eredita', troppo egotista, ma anche orgogliosamente lucido, per farlo.
Quanto agli iperbolici che cominciano, costernati e smarriti, «Non ho parole», dovrebbero prendersi alla lettera. L'esordio coincide con l'epilogo. Io penso che ne andrebbe incoraggiato non solo l'uso, ma soprattutto il rispetto.

31 dicembre
Quando tenevo, anni fa, corsi di scrittura a Lugano, avevo notato tra i partecipanti un signore anziano, molto elegante e garbato, che faceva interventi calibrati, spesso ironici e corroboranti. Mi aveva anche mostrato certi suoi quaderni di aforismi e io li avevo tanto apprezzati da commentarli durante le lezioni. Da allora mi ha mandato a ogni fine anno, come in questo scorcio del '97, una piccola raccolta di aforismi, sulla quale gli ho sempre detto le mie impressioni. Mi sembrava un maestro in ombra di aforismi che meritavano la luce. E non e' infatti sfuggito alla competenza lenticolare di Gino Ruozzi, che l'ha incluso nel Meridiano Mondadori di Scrittori italiani di aforismi.
Dalla nota biografica ho appreso che quel signore affabile, Carlo Gragnani, e' nato a Livorno nel 1910 e risiede a Lugano dal 1983. Che e' «economista e studioso di filosofie orientali, direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale (Washington) dal 1952 al 1960, direttore della sede di Parigi della Banca Commerciale Italiana finoal 1975». E che ha pubblicato due raccolte di aforismi, tra il 1989 e il 1992, preso la Cuem e quattro raccolte, tra il 1994 e il 1997, 'presso l'autore'.
C'e' sapere orientale nel suo occhio insieme disincantato e partecipe, nella sua amarezza solidale, nelle impercettibili catastrofi provocate dalla sua malinconia. Gli aforismi andrebbero sempre letti nella loro raccolta, se si vuole veramente coglierne il significato e l'eco. Qui mi limito a sceglierne qualcuno che piu' si presta a essere letto da solo.
  CONTINUA ...»

4 GENNAIO 1998
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