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È Pechino il grande burattinaio dei cambi

di Martin Wolf

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7 aprile 2010

La superpotenza in carica vacilla davanti a quella che le contende il titolo. Il Tesoro americano ha deciso di rimandare il rapporto, atteso per il 15 aprile, in cui avrebbe spiegato se la Cina manipola o meno il proprio tasso di cambio. Sono in corso consultazioni multilaterali e bilaterali, è giusto lasciare che la discussione proceda, prima di agire.

Ma la Cina manipola la valuta? Sì. È intervenuta massicciamente per tenerla bassa. Tra gennaio 2000 e la fine dell'anno sorso, le sue riserve di valuta estera sono aumentate di 2.240 miliardi di dollari. Dal luglio 2008, quando si è fermata la lenta rivalutazione dello yuan/renminbi rispetto al dollaro iniziata tre anni prima, le riserve sono salite di altri 600 miliardi, e oggi rappresentano quasi il 50% del prodotto interno lordo. Inoltre, è stato fatto uno sforzo gigantesco per contenere gli effetti inflazionistici di questo intervento.

Pechino ha quindi contenuto la rivalutazione del tasso di scambio sia reale che nominale: questa è sicuramente una manipolazione della sua moneta. È anche protezionismo: equivale a un dazio e a un sussidio all'esportazione. Il primo ministro Wen Jiabao aveva protestato con gli Usa per «una svalutazione della moneta e un tentativo di far pressione sugli altri perché rivalutino, allo scopo di aumentare le esportazioni. Dal mio punto di vista, si tratta di protezionismo». Senti chi parla, potevano rispondergli gli Stati Uniti.

Eppure certi economisti lo negano: anche se l'intervento è enorme, dicono alcuni, la distorsione è piccola; l'impatto sulla bilancia commerciale globale è minimo, dicono altri; per altri ancora, gli squilibri globali non contano; o ancora il problema, sebbene reale, sarebbe in via di soluzione. Vediamo queste quattro tesi.

Per quanto riguarda la prima, sulla portata della sottovalutazione le stime variano moltissimo, c'è persino chi sostiene che lo yuan sia sopravvalutato. La discrepanza è in parte dovuta a metodologie contrastanti – equilibrio fondamentale dei tassi di cambio contro parità di potere d'acquisto – e in parte a presupposti diversi circa il punto da cui partire.

Se per esempio i cinesi potessero esportare liberamente i propri risparmi, il flusso di capitali in uscita potrebbe superare l'intervento attuale. Ma se il mondo fosse libero di comprare titoli cinesi, anche il flusso di capitale in entrata potrebbe esplodere. Chi non vorrebbe un pezzo dell'economia più dinamica del mondo?

È plausibile una forte sottovalutazione, addirittura «del 25% su un paniere ponderato di valute e del 40% rispetto al dollaro», come suggeriva Fred Bergsten del Peterson Institute for International Economics. Ma una stima della JpMorgan indica invece un 10% sopra il livello medio ponderato dall'inizio del 1994 in poi, nonostante la crescita economica cinese sia stata la più veloce del mondo nello stesso periodo. E dall'ottobre 2008 la moneta si sarebbe svalutata soltanto dell'8%. È proprio strano.

In merito al secondo argomento, Stephen Roach di Morgan Stanley ha sostenuto che le differenze nei rispettivi risparmi determinano la reciproca bilancia commerciale e che l'eccedenza cinese non può determinare l'intero deficit statunitense. Non ne sono convinto. Se la moneta cinese influenza il tasso di scambio con il dollaro per i concorrenti della Cina, e lo fa sicuramente, influisce certamente sulle bilance multilaterali. E come faccio notare nel mio libro Fixing Global Finance, l'influenza è reciproca: i tassi di cambio reali determinano anche i tassi di risparmio. Questo, perché i governi sono molto attenti al prodotto interno lordo. Tra il 2006 e il 2008 il tasso di cambio reale, e sottovaluto, della Cina ha generato un contributo di esportazioni nette corrispondente al 5,6% del Pil. All'epoca non c'era motivo per le autorità cinesi di voler contenere l'eccedenza di risparmio: finiva in esportazioni nette. Ma sono crollate nel 2009, togliendo un 3,9% dal Pil, e le autorità cinesi sono intervenute per abbassarla con un'espansione del credito interno e promuovendo gli investimenti. Stephen Roach punta anche il dito contro i risparmi netti, attualmente trascurabili, degli Stati Uniti. Ma risultano anch'essi da una compensazione fiscale per attenuare un brusco aumento dell'eccedenza di risparmio nel settore privato. Perché è stata necessaria? Risposta: con un deficit strutturale enorme della bilancia commerciale, un aumento del risparmio privato negli Stati Uniti avrebbe causato una depressione. Insomma le eccedenze di risparmio sono una variabile politica, non un dato di fatto.

Anche sulla terza argomentazione non sono d'accordo: gli squilibri contano. In parte, è dovuto alla forma che hanno assunto. Come scrivono Anton Brender e Florence Pisani in un brillante saggio per il Centre for european policy studies (Global imbalances and the collapse of globalised finance, Ceps, 2010), la caratteristica del flusso di capitali in uscita dalle economie emergenti è che ha assunto la forma di riserve, con un aumento di quasi 6mila miliardi di dollari negli anni Duemila, e hanno accresciuto enormemente la domanda di titoli liquidi e sicuri. Il nostri astuti finanzieri hanno fabbricato titoli in quantità industriali a partire da ingredienti "subprime", con i risultati che sappiamo. Gli squilibri contano anche perché incideranno molto sulla ripresa. Come ha detto Mark Carney, il governatore della Banca del Canada, in un recente discorso, se dovessero protrarsi, sono concepibili due esiti: i paesi con forti deficit esterni continuano ad avere forti deficit pubblici, finché «i tassi d'interesse globale cominciano a salire, scoraggiano l'investimento privato e in finiscono per deprimere la crescita potenziale»; oppure i paesi in deficit esterno cominciano a ridurre con determinazione il proprio deficit di bilancio, senza alcuna forma di compensazione da parte dei paesi in surplus, nel qual caso «c'è carenza di domanda globale».

  CONTINUA ...»

7 aprile 2010
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