Il pilota Chelsey «Sulley» Sullenberger che salva i suoi passeggeri atterrando sul fiume Hudson e gli anonimi marines nel caos della torre di controllo dell'aeroporto di Haiti dopo il terremoto sono simboli dei due possibili esiti per il nostro mondo post crisi finanziaria.
Sullenberger, veterano del Vietnam, ha appena lasciato l'aeroporto La Guardia di New York il 15 gennaio del 2009 quando il suo Airbus 320 colpisce uno stormo di anatre: entrambi i motori vengono distrutti, l'aereo perde quota, il disastro sembra certo. La tragedia è evitata da due eroi, lo stoico Sullenberger, e l'ingegnere Bernard Ziegler, progettista del sistema di volo elettronico dell'Airbus. Senza la calma di Sullenberger - spiega William Langewiesche nel libro Fly by wire - non ci sarebbe stato il miracolo di trasformare il fiume gelato di New York in una pista, ma senza il genio tecnico di Ziegler, capace di bilanciare l'autonomia dei piloti in manovra con un software che ne corregge gli errori, l'azzardo non sarebbe riuscito. Il «miracolo sull'Hudson» contrasta con la débâcle di Haiti, dove i militari Usa di presidio alla torre di controllo nei giorni dopo il sisma non sapevano che precedenza dare ai voli - prima esercito o civili, americani o europei, Onu o Ong? - paralizzando i soccorsi.
Il dilemma globale del 2010 è: avremo il coraggio e il progetto di Sullenberger & Ziegler o cadremo nel caos - lastricato di buona volontà - di Haiti?
Nei giorni convulsi della crisi finanziaria, intorno alla caduta di Lehman Brothers, il caos della torre di controllo haitiana non è prevalso per un filo. Allora, rivela l'ex segretario americano del Tesoro Hank Paulson nel saggio On the brink, i russi proposero ai cinesi di svendere bond Fannie Mae e Freddie Mac, mandando in tilt il mercato dei mutui. Non era una mossa speculativa, era offensiva strategica contro gli Usa alle corde e Pechino, saggiamente, disse di no. Nelle sue memorie Paulson elenca i prodromi del caos «haitiano»: Paulson che deve decidere se prendere un sonnifero o restar fedele al suo credo di Christian Scientist e non assumere farmaci; Paulson che si inginocchia davanti alla Speaker della Camera, la democratica Nancy Pelosi, implorandola di dare semaforo verde ai 700 miliardi di dollari (circa 510 miliardi di euro) e salvare Wall Street.
La sorte di Haiti fu sfiorata, ci furono vittime e sconfitte, ma riguardare oggi quelle storiche giornate ci fa concludere che, malgrado tutto, i politici seppero atterrare con lo stile e la fortuna di «Sulley» Sullenberger, i tecnici rivelarsi duttili come l'ingegner Ziegler. Ha scritto il decano degli economisti Martin Wolf (Financial Times e Il Sole 24 Ore 3 febbraio): «La strategia degli interventi tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009 è stata un successo clamoroso. Ne è risultata una recessione più breve e meno profonda di quanto tanti osservatori avrebbero immaginato un anno fa ... per quasi tutte le economie importanti le previsioni di crescita per quest'anno sono migliori di quanto non avremmo previsto 12, o anche solo 6 mesi fa. L'economia mondiale ha superato l'attacco cardiaco del sistema finanziario».
I problemi dell'oggi sono noti, ripresa che, dove c'è, non sa creare lavoro, Cina più veloce, Usa che recupera sul lavoro - ma piano -, Europa cigolante. Rimettendo insieme le due migliori cartelle mediche dell'infarto subito dalla nostra economia, il saggio di Paulson e il monumentale Too big to fail di Andrew Ross Sorkin (la cui meritoria traduzione italiana taglierebbe tante banalità in libero corso da noi), risulta che a salvare il paziente furono la rapidità degli interventi (e dove si tardò, i danni furono massicci) e il coordinamento (la rapidità della Cina, per esempio) tra stati, mercati, istituzioni. Crisi globale, risposta globale e il caos haitiano non prevalse.
A darci la scossa però fu il sentirci come Paulson «on the brink», sul ciglio dell'abisso. Non appena ce ne siamo ritratti, sia pur di un passo, la solita prudenza, i soliti calcoli, gli eterni particolarismi tornano a distrarci. Conclude amaro Wolf: «L'economia è globale, la politica locale». Vale per i cinesi, con lo sviluppo che si scontra con l'aspirazione alla democrazia come ha scritto nel suo editoriale di ieri Guido Tabellini. Vale per Barack Obama che deve usare il raziocinio del vecchio ex governatore Paul Volcker per trovare nuove regole sulle banche, ma al tempo stesso temperare il populismo crescente tra gli scontenti del movimento Tea Party. E vale soprattutto per noi europei, incapaci di scegliere leader se non lottizzati nell'ombra come van Rompuy e Lady Ashton. Restiamo ipnotizzati dalla «agende»: fallisce quella di Lisbona, e subito convochiamo per l'11 febbraio «l'agenda 2020», rincorriamo i summit con il risultato che il presidente Obama se ne stufa e non verrà a Madrid per l'ennesimo vertice di maggio. Grandi malumori in Europa, ma se voi foste il presidente Usa, due guerre in corso, l'economia e i disoccupati da contenere, il risentimento populista e le elezioni a novembre, perdereste tempo? Io no.
CONTINUA ...»