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LETTERE CONTEMPORANEE / Ciascuno per sé il ridicolo dell'Ue

di Giuliano Amato

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07 febbraio 2010

Quando si leggono su serie riviste specialistiche titoli come «C'era una volta Obama» (così l'ultimo numero di Limes), è facile capire che le critiche al presidente americano cominciano ad occupare la scena. E se si va al merito, si vede che investono tanto la sua politica interna, quanto le sue decisioni e (secondo molti) indecisioni di politica internazionale.
A volte si tratta di critiche immeritate - ritengo ad esempio un delitto sostenere che con la riforma sanitaria Obama sta perdendo il suo tempo. Altre volte però non è così. In un articolo sul New York Times del 1° febbraio scorso, Roger Cohen scriveva che è per lui un mistero come il presidente possa pensare di raddoppiare le esportazioni americane entro il 2015 - come ha detto nel discorso sullo stato dell'Unione - provocando nel frattempo la Cina con la vendita di armi a Taiwan. E un mistero francamente lo è anche per me, anche a tener conto delle precedenti provocazioni di Pechino, a partire da quanto accadde alla Conferenza di Copenaghen, dove a parlare con lui fu mandato un vice-primo ministro.

È effettivamente possibile che la macchina di Washington stia per ora dando corso a più politiche estere incoerenti fra loro.
Dato atto di questa e di altre possibili critiche, non me la sento però di seguire chi se ne avvale per estrarne un alibi a favore dell'Europa, sino a scaricare sugli Stati Uniti la responsabilità dello stesso, vistoso allentamento del lavoro transatlantico comune. È vero, è stata Washington ad annunciare che il presidente non parteciperà al summit con l'Unione Europea organizzato a Madrid per il maggio prossimo. Ma siamo davvero sicuri che sono gli Stati Uniti a non voler concertare con i vecchi alleati le soluzioni che servono al mondo? Non siamo invece noi, come sempre ciascuno con le sue idee e privi di soluzioni europee da portare con credibilità al tavolo dell'incontro?

Io non sono fra quelli che amano autoflagellarsi, né come italiano e neppure come europeo. Cerco anzi in ogni situazione il meglio di ciò che siamo e che possiamo diventare. Ma al punto a cui è giunta la nostra avventura comune, devo dire con rammarico che vedo un'Unione Europea ridotta dai suoi stati membri non solo all'impotenza, ma addirittura al ridicolo. E comincio proprio dal ridicolo, perché non saprei definire altrimenti un assetto nel quale il primo ministro del paese che ha la presidenza semestrale continua ad organizzare incontri e vertici come quando, in ragione di tale presidenza, era anche presidente del Consiglio europeo, mentre oggi non lo è più. Oggi il presidente del Consiglio europeo è un altro, lo ha nominato per due anni e mezzo lo stesso Consiglio, ma lo vediamo chiuso a Bruxelles oppure pubblicamente affiancato, in questo semestre, dallo spagnolo Zapatero. Insomma, col Trattato di Lisbona avevamo pensato di semplificare le cose, e ora abbiamo la bellezza di tre presidenti (c'è anche quello della Commissione) che esibiamo ai nostri interlocutori, con in più la Signora Alto Rappresentante.
Almeno avessero tutti insieme qualcosa da dire a nome dell'Europa. Ma non ce l'hanno e il dramma dell'Europa impotente nasce da qui. Nel recente rapporto Towards a Post-American Europe, che hanno scritto per lo European Council on Foreign Relations, Jeremy Shapiro e Nick Witney sostengono che, nel mondo seguito alla guerra fredda, gli Stati Uniti e l'Europa non hanno più una precostituita identità d'interessi e che la relazione transatlantica ha un senso se l'Europa si fa in essa portatrice delle sue visioni e delle sue soluzioni. Solo così c'è poi ragione per gli americani di impegnarsi in un lavoro comune. Ma - si chiedono impietosamente i due autori - qual è la visione dell'Unione su Afghanistan e Pakistan, che cosa operativamente propone per la questione israelo-palestinese, come la vuole mettere con la Russia al di là delle cointeressenze pubblico-private in materia energetica?

Il Servizio diplomatico europeo, voluto proprio dal Trattato di Lisbona, è visto da tutti come un'incubatrice dalla quale potranno uscire linee di politica estera non più segnate dagli interessi nazionali e ispirate finalmente da una visione soltanto europea. Ma il Servizio ancora non c'è e i governi degli stati membri sembrano muoversi sempre più secondo logiche nazionali, ciascuno per sé e nessuno per tutti. Sono stati rari in passato i momenti di così pesante ricaduta dei governi nazionali entro prospettive tanto rigidamente chiuse nei confini segnati dalle rispettive constituencies territoriali e politiche.

Tutto questo, ci piaccia o no, viene percepito dai nostri interlocutori esterni. È allora possibile che trovino interessante questa o quella posizione assunta dalla Germania, dalla Francia o dalla stessa Italia. Incontrare invece tre presidenti più altri che dovrebbero parlare a nome dell'Europa, ma che a nome dell'Europa non hanno nulla da dire è un gioco che non vale la candela. Le agenzie di giovedì informavano che i vertici con l'Unione Europea sarebbero stati definiti in alto loco a Washington come «gli appuntamenti dal dentista. Sai che ci devi andare, ma ti fanno sempre soffrire».

  CONTINUA ...»

07 febbraio 2010
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