Davanti alle tante questioni importanti che meritano oggi l'attenzione dei lettori, non mi rende felice dedicare questa Lettera alla vicenda del decreto salvaliste varato dal nostro governo nella notte di venerdì e pubblicato già ieri su Il Sole 24 Ore. Ma è una vicenda esemplare delle scelte che ci troviamo di fronte nelle situazioni, sperabilmente rare, nelle quali sui due piatti della bilancia non ci sono il male e il bene, ma un male e un male peggiore. Ed è in primo luogo per questo che vale la pena di capirne di più.
Trovare ragioni di critica verso il decreto appena approvato è un facile esercizio, sia per la scelta in sé di intervenire con atto di urgenza, sia per i suoi contenuti, a fronte delle strade diverse che esistevano allo scopo di rimettere in corsa liste escluse per violazione delle regole elettorali. Si potevano riaprire i termini per la presentazione delle stesse liste, si poteva offrire un nuovo e breve termine per sanare i vizi delle presentazioni effettuate, si poteva infine spostare in avanti la data del voto, il che avrebbe portato con sé la riapertura degli stessi termini per la presentazione.
Ciascuna di queste soluzioni avrebbe avuto i suoi svantaggi, ciò nondimeno avrebbero tutte consentito non solo al Pdl, ma anche ad altri, esclusi per motivi diversi, di rientrare in gara. In più, si sarebbe lasciata a una riflessione più meditata e meno estemporanea la modificazione delle regole esistenti.
Si è scelta invece la strada di una normativa che ha riscritto le formalità di presentazione e vi ha fatto rientrare le condizioni in cui erano le liste presentate dal Pdl nel Lazio e in Lombardia, che la legge vigente portava con ragionevole certezza a escludere. Se per il rispetto dei termini di presentazione la legge imponeva che i presentatori fossero entrati in spazi appositi del tribunale o della Corte d'appello, il decreto dice che è ora sufficiente che essi «abbiano fatto ingresso nel tribunale o nella Corte d'appello» e che lo possono provare «con ogni mezzo idoneo» (caso del Lazio). Se fino a ieri le firme si consideravano valide solo se autenticate con certe modalità, ora i dati mancanti possono essere desunti altrimenti e la regolarità dell'autenticazione «non è comunque inficiata dalla mancanza o la non leggibilità del timbro dell'autorità autenticante, del luogo dell'autenticazione, nonché della qualità dell'autorità autenticante» (caso della Lombardia).
È certo una normativa meno intrusiva (rispetto allo svolgimento in corso del processo elettorale) di quanto lo sarebbero state le altre prima prospettate, ma è altrettanto certo che definirla "interpretativa" è un po' un eufemismo. In realtà, le regole sono state riscritte a misura di situazioni e comportamenti concretamente verificatisi e ritenuti non compatibili con la legge vigente.
È una tecnica legislativa che sarebbe a dir poco imprudente generalizzare su larga scala. Epperò, così facendo che cosa si è ottenuto nello specifico di questa nostra vicenda? Si è ottenuto che il giudice amministrativo, già chiamato a decidere sulla validità delle presentazioni contestate, avrà davanti una disciplina, che potrà consentirgli di fornire risposte positive, senza le forzature, a mio avviso davvero ardue soprattutto nel caso del Lazio, che sarebbero state altrimenti necessarie. Intendiamoci: il giudice amministrativo potrà e dovrà valutare la legittimità di questo ardito esercizio interpretativo, ma se gli parrà legittimo, la conclusione diverrà semplice.
E qui si passa dai tecnicismi giuridici alla sostanza della questione. Diciamo la verità. Nessuno avrebbe in realtà voluto che si arrivasse alle elezioni senza le liste del Pdl. E anche chi era contrario a interventi legislativi e diceva «lasciamo lavorare i giudici», sperava in effetti che avrebbero loro riammesso quelle liste. Ma se così fosse stato, non lo si sarebbe dovuto a un tribunale pronto a sacrificare la legge in nome della ragion di stato o di partito? E che cosa ne avrebbe dovuto desumere il cittadino? Che per ottenere un risultato voluto da tutte le forze politiche è meglio che a sporcarsi le mani siano i giudici e non la politica?
Di sicuro se lo sarà chiesto il capo dello stato, Giorgio Napolitano, che avrà anche valutato il rischio che i giudici respingessero i reclami, che il Pdl dovesse rinunciare ai suoi candidati e che si arrivasse conseguentemente alla elezione di organi costituzionali corrosi da un insanabile difetto di rappresentatività e quindi di legittimazione politica, con danno sia per i vincitori che per i vinti nella gara elettorale.
Se si fa dunque una realistica analisi costi/benefici, alla fine se ne ricava che questo sgradevolissimo decreto, se i giudici - torno a dire - riterranno senza remore di poterlo applicare, toglie tutti da un serissimo impiccio. Certo nelle vicende umane, politica inclusa, la razionalità non basta da sola a rendere digeribile ciò che è emotivamente indigesto. E qui qualcosa va aggiunto affinché l'opposizione non necessariamente approvi il decreto, ma almeno lo digerisca, salvo a dire che non le piace. Va allora aggiunta l'umiltà di chi non può non sapere di avere imposto alle istituzioni della Repubblica una decretazione d'urgenza a causa di comportamenti improvvidi registrati nelle proprie file, per i quali ci si può solo scusare, guardandosi bene dall'imputare il problema che essi hanno creato non alla responsabilità dei loro autori, ma ai lacci e laccioli della legge, alla burocrazia che uccide la democrazia, agli slogan insomma di chi considera la legge un ostacolo di cui è sempre bene liberarsi.
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