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In 180 secondi la tv fa un leader

di Simon Schama

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8 aprile 2010

«Chi sono e che cosa ci faccio qui?», esordì al primo dei dibattiti politici teletrasmessi nel 1992 il vice-ammiraglio James Stockdale, compagno di ticket di Ross Perot candidato alla presidenza degli Usa. Gli elettori inglesi, che si dovranno sorbire la loro versione di questo rituale della democrazia, forse si faranno la stessa domanda mentre il loro telecomando andrà alla ricerca della trasmissione del campionato di biliardo. Poi, ancora una volta, si ritroveranno inchiodati alla poltrona, come accade a decine di milioni di americani ogni volta che i candidati alla presidenza si incontrano davanti alle telecamere. Seguirono il dibattito Nixon-Kennedy del 1960 77 milioni di americani (il 60% degli adulti); nel 2008 gli spettatori del primo duello tv Obama-McCain hanno superato il numero di quelli incollati a seguire l'inaugurazione dei Giochi olimpici di Pechino. La Gran Bretagna sta per entrare nell'era della politica televisiva dalla quale, piaccia o non piaccia, non si torna più indietro.

Alcuni potrebbero pensare che questo sia un valido motivo per lamentarsi, tenuto conto che i repentini cambiamenti di scena e l'impeto della politica britannica sono stati retrocessi a un concorso di seduzione. La poco realistica luce violetta che la settimana scorsa Channel 4 ha utilizzato per un dibattito politico è stata un'allusione alla squillo che rischia di travolgere la politica britannica o è stata presa da X Factor? Stiamo per ridurre il dibattito a uno scambio di battute da quattro soldi, con i grandi esperti in attesa tra le quinte per quantificare il tasso di umorismo-e-gaffe di ogni candidato per poi emettere, in stile Cowell, il verdetto sull'effettivo valore come intrattenitori? La storia dei dibattiti tv americani sin dagli anni 60 non ha già dimostrato che il mezzo televisivo privilegerà sempre lo stile rispetto al contenuto, facendo da cassa da risonanza per i triviali tradimenti del linguaggio corporeo rispetto all'impegno verso idee contrastate?

Non necessariamente. È pur vero che ci sono stati momenti decisivi, nei quali la capacità di un candidato di manipolare il pubblico televisivo ha distolto l'attenzione dalle implicazioni più profonde di una sua argomentazione. I casi più significativi risalgono agli anni 80, quando Jimmy Carter si presentò a un dibattito con Ronald Reagan con un leggero vantaggio nei sondaggi, e cercò di inchiodare l'avversario ricordando che Reagan inizialmente si era fatto un nome nella politica nazionale nel 1964 con un attacco allarmistico a Medicare (l'ente statale che fornisce l'assicurazione sanitaria alla popolazione anziana). Un simile approccio socialista, disse Reagan, indicava l'inizio della fine per la libertà americana (vi suona familiare?). Carter deve aver pensato di essere sicuro di vincere e fece capire che, qualora Reagan l'avesse spuntata, uno dei programmi sociali di maggior importanza per gli anziani non avrebbe mai visto la luce.

A questa accusa Reagan non diede risposte dirette. Sollevò la testa, distese le rughe nel sogghigno più trionfante che si possa immaginare e disse con voce sommessa: «Ecco che ricominci!». Il boato di scherno anti-Carter si udì da una costa all'altra. La battuta mortificante di Reagan non voleva dire nulla, ma Carter capì che si trattava di una stoccata in grado di metterlo fuori gioco. In modo subliminale intendeva dire: «Tu e io sappiamo con chi abbiamo a che fare - non è vero? - lo studente più brillante nel corso di studi sociali, lo sgobbone che sa tutto e ha i numeri da sciorinare sulla punta delle dita e nonostante tutto ancora non afferra come stanno le cose?». Da quel momento, Carter, l'ultimo secchione della politica, il bravo ragazzone ossessionato a livello morale, era nel sacco. A dare il colpo di grazia bastò l'ultima domanda di Reagan: «Chiedetevi: state meglio oggi rispetto a quattro anni fa?». Una competizione elettorale troppo di misura per poterne prevedere l'esito si trasformò in una trionfale vittoria.

Esistono due modi per giudicare momenti di questo tipo nella politica televisiva. Da un lato si può affermare che il talento di Reagan per la tv ha condannato gli Usa a otto anni di presidenza insignificante che si è atteggiata a rivoluzione conservatrice nel nome di valori solo americani. Dall'altro si può affermare che ha dato la vittoria al candidato più meritevole; che i modi da vecchio zio di Reagan diedero prova di una reale capacità di leadership, necessaria allora per sollevare gli Stati Uniti dai dubbi che nutrivano su loro stessi e far disperdere la collera degli ultimi anni dell'amministrazione Carter in una nuova fase di autostima nazionale.

La tele-logistica ha il suo peso. In America gli applausi sono vietati e lo spirito di parte della reazione del pubblico nel dibattito del cancelliere della settimana scorsa è servito solo a far sembrare questa regola un assennato disincentivo contro le performance rivolte al pubblico in galleria. Ma imprevedibile quanto il jolly in un mazzo di carte può essere anche il conduttore che formula le domande. Nei dibattiti del 1988, che segnarono il punto più basso nella storia delle elezioni - nella campagna Bush senior-Michael Dukakis - la prima domanda rivolta al candidato democratico dal giornalista della Cnn Bernard Shaw fu esageratamente personale. Il governatore - che si opponeva alla pena di morte in Massachusetts - sarebbe stato favorevole a essa qualora vittima di stupro e omicidio fosse stata sua moglie? Un candidato esperto di dibattiti televisivi avrebbe ribattuto: «Non sono fatti che la riguardano»; oppure avrebbe ammesso qualche divergenza tra sentimenti e questioni di principio. Dukakis si limitò a infischiarsene dell'insulto, andò avanti a esporre le sue idee. Tutto ciò che George W. Bush dovette fare per assicurarsi la vittoria fu godersi la sconfitta dell'avversario. Anche lui, tuttavia, da lì a quattro anni avrebbe affrontato la sua Waterloo televisiva, allorché in un "town hall" informale qualcuno sistemando la telecamera lo inquadrò nel momento in cui controllava l'orologio, impaziente di sottrarsi una volta per tutte alla prova di doversi intrattenere con il popolino, in quel genere di eventi che erano una manna del cielo per il socievole Bill Clinton.

  CONTINUA ...»

8 aprile 2010
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