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Tettamanzi: vigilo su tutto il gregge

di Dionigi Tettamanzi

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8 dicembre 2009

Pubblichiamo un ampio stralciodell'omelia che il cardinale Dionigi Tettamanzi ha tenuto ieriin occasione della festa di Sant'Ambrogio.

Al termine della Messa, in relazione alle polemiche seguite alle parole del ministro Calderoli, ha affermato: «Sono sereno. La mia bussola è la parola del Vangelo e sono le esigenze profonde stampate in ogni persona.
Se politica vuol dire amare la polis, allora tutti dovrebbero far politica».

Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore». Inizia così la pagina del Vangelo di Giovanni che la liturgia della solennità di Sant'Ambrogio propone alla meditazione e alla preghiera.
L'invito è a guardare a Cristo con gli occhi della fede, a contemplare con amore e gioia il suo volto, a penetrare nel suo cuore: è il volto e il cuore del "buon pastore".
Seguiamo lo stesso Sant'Ambrogio che nei suoi scritti ha commentato i passi evangelici riguardanti Gesù come buon pastore. Ci è dato così di riascoltare la voce del nostro Santo, di condividere i suoi atteggiamenti interiori, di accogliere le sue prospettive pastorali, di fare nostra la sua preghiera a Cristo Signore.

La pagina di Giovanni che ci parla di Gesù il buon pastore trova il suo centro vivo e palpitante nel singolarissimo rapporto di conoscenza e di amore che esiste tra il pastore e le pecore: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre». E il vertice della comunione d'amore sta nel dono della vita: «E do la mia vita per le pecore». Ora è davvero sorprendente il fatto che il rapporto tra Gesù e noi non è un rap-porto generico, indistinto, di massa- siamo il suo "gregge" - , ma un rapporto personale, personalissimo: tocca ciascuno di noi nella propria unicità e irripetibilità. Viene da pensare alla confessione dell'apostolo Paolo: «Ha amato me e ha dato se stesso per me».
Sant'Ambrogio sottolinea questo aspetto, insieme commovente e responsabilizzante, ponendo in luce la premura del buon pastore nei riguardi della centesima pecora, l'unica dell'intero gregge andata smarrita. Il rapporto tra le novantanove pecore che vengono lasciate e l'una che viene ricercata manifesta il valore eminente della salvezza anche di una sola pecora. Così scrive nel Commento al Salmo 118: «Nel suo Vangelo fu il Signore Gesù ad affermare che il pastore ha abbandonato le novantanove pecore per andare alla ricerca dell'una che andava errando. La pecora, che Egli chiama errante, è la centesima: la perfetta interezza di questo numero è di per se stessa istruttiva e significativa. E non senza ragione quella pecora viene preferita a tutte le altre, perché vale di più l'essersi sottratti al vizio che l'averne quasi ignorata l'esistenza».
Un altro passo interessante di sant'Ambrogio ci mostra come il buon pastore guida il suo gregge non solo personalmente- dice, infatti, quasi con amore estremamente geloso: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me » -, ma anche attraverso altri "pastori", che da lui incaricati lo rappresentano, ne fanno in qualche modo le veci, sono i suoi strumenti vivi nella cura del gregge.

Il nostro Santo rileva come prima della nascita di Cristo la condizione dei popoli della Terra era simile a quella di tanti greggi abbandonati, erranti, indifesi dagli assalti delle belve. Ora però la situazione è cambiata, perché il buon pastore ha raccolto questi greggi nel suo ovile per mezzo dei suoi pastori e li ha affidati alla loro custodia. E i pastori sono quaggiù i vescovi e in cielo angeli di Dio. Riferendosi al testo evangelico che narra come alla nascita di Gesù i pastori vegliavano all'aperto e stavano a guardia del loro gregge, Ambrogio scrive: «Guardate i primordi della Chiesa che sorge: Cristo nasce, e i pastori cominciano a vegliare per radunare nell'atrio della casa del Signore le greggi dei Gentili, che vivevano come tante pecore, affinché non subissero le irruzioni delle bestie spirituali, favorite dalla tenebre incombenti della notte. E bene si dice che i pastori vegliano, perché lo stesso buon Pastore è il loro modello di vita. Pertanto il gregge è il popolo, la notte il mondo, e i pastori sono i vescovi. Oppure pastore è anche colui al quale si dice: Sii vigilante e rafforza, perché il Signore ha incaricato della cura del gregge non soltanto i vescovi, ma vi ha destinato anche gli angeli».

Da questo testo di Ambrogio emerge, anche se solo per rapidissimi accenni, la fisionomia pastorale propria dei Vescovi. Ad essi è affidata - come da preciso incarico - la cura, la custodia del gregge, ossia del popolo di Dio. È una custodia che comporta di riunire il gregge e in particolare di vigilare sul gregge e così difenderlo dagli assalti delle bestie spirituali, ossia dagli errori di quei lupi rapaci che sono gli eretici. Scrive al riguardo il vescovo di Milano in un altro passo del commento a Luca: «Non sono forse da paragonare a codesti lupi gli eretici, i quali stanno in agguato presso gli ovili di Cristo, e fremono attorno ai recinti più di notte che di giorno? È sempre notte per gli increduli, i quali, per quanto è loro possibile, si danno da fare per offuscare e oscurare la luce di Cristo con le nebbie d'interpretazioni sinistre. Stanno a spiare quando il pastore è assente, e per questo fanno di tutto sia per uccidere sia per esiliare i pastori delle Chiese, perché se i pastori sono presenti, non possono assalire le pecore di Cristo».
  CONTINUA ...»

8 dicembre 2009
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