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Il primario cerca all'estero l'antidoto alla routine

di Elio Silva

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8 febbraio 2010

Prendono ferie, chiedono settimane di congedo, quando possibile si mettono in aspettativa. Lasciano alle spalle reparti specializzati, sale operatorie o profittevoli ambulatori privati. E a casa hanno mogli e figli che non si lamentano, anzi ne vanno orgogliosi, anche quando la rinuncia all'arrotondamento di entrate del capofamiglia, normalmente assicurato dall'attività libero-professionale, può comportare qualche sacrificio.

Intanto loro, medici in prima linea sul fronte del volontariato, con facce ben diverse dall'immaginario consegnatoci da George Clooney o dal dottor House, si pagano viaggi lunghi e sonni incerti, giornate di fatica e polvere in qualche parte del mondo vicina all'inferno. Per la gioia di curare e possibilmente salvare vite umane, certo. Ma anche, un po' a sorpresa, per imparare, migliorarsi e ritrovare il gusto della professione, quello che in Italia, per diverse ragioni, troppe volte finisce per dissolversi nella routine.

Un fenomeno poco appariscente, quello degli operatori sanitari che vanno in missione all'estero, che Il Sole 24 Ore esplora attraverso il racconto di alcune esperienze, all'inizio di un breve viaggio tra professionisti e volontariato. Ma il trend è in costante crescita e diventa evidente nelle emergenze, come in questi giorni ad Haiti, dove sono stimati in oltre 200 i medici italiani che, nell'arco di un mese, si sono avvicendati per i soccorsi.

La sola fondazione Rava, Onlus milanese da anni presente ad Haiti con l'ospedale pediatrico Nph di Saint Damien, ha fatto partire da gennaio a oggi 41 medici. E lontano dai riflettori della cronaca, in periodi e aree di ordinaria povertà, i numeri sono altrettanto significativi, tanto che una valutazione basata su dati dei servizi di patronato, che garantiscono la copertura assicurativa di operatori e volontari, porta a una stima di almeno 3mila "missioni" l'anno.
È rientrato appena tre giorni fa da Haiti, per esempio, Alberto Reggiori, 52 anni, di professione chirurgo all'ospedale di Cittiglio (Varese), ma di vocazione volontario, ovunque ci sia bisogno di combattere contro emergenze e malattie. Dal 1985 a oggi, dall'Africa alla Bosnia, dall'India alla sfortunata isola caraibica. Reggiori ha anche dieci anni di esperienza come "professionista" della cooperazione: ha lavorato in Uganda, dove aveva portato la moglie e sono nati i suoi tre figli. Oggi deve accontentarsi di missioni brevi, quelle consentite dalle ferie maturate o dai permessi fruibili. Sempre come volontario dell'Avsi, la fondazione di matrice cattolica che dal 1972 opera con i paesi in via di sviluppo.

«Il medico volontario è sempre prezioso - spiega - ma nelle emergenze come quella di Haiti è ovvio che non si può prescindere da un intervento di tipo istituzionale, che mobiliti risorse e mezzi con la massima rapidità. Quando, invece, si fanno progetti di cooperazione risulta molto funzionale il sistema misto adottato dalle Ong, anche perché, dopo la fase iniziale, molti volontari devono rientrare e a rimanere sempre in campo sono la Chiesa, con le sue attività missionarie, e le organizzazioni non governative».

Le occasioni per diventare volontari possono essere le più disparate. «Nel 2003 mi è capitata l'opportunità di una vacanza in un villaggio a Quarto Plata, nella Repubblica Dominicana», racconta Luigi Monti, 53 anni, anestesista rianimatore all'ospedale di Ceccano (Frosinone), in questi giorni in missione a Santo Domingo, presso la fondazione Los Amiguitos de Cristo, che sta assistendo, tra gli altri, anche molti piccoli orfani di Haiti. «Sono partito per turismo, ma ho capito ben presto che il mare non mi interessava più di tanto e, con un collega, ho iniziato a girare il paese vero, prendendo contatto con una realtà drammatica, fatta di miseria e malattie». Così, dall'anno dopo, l'impegno si è rafforzato e, grazie al collegamento con la Onlus Aiutare i bambini, si è tradotto in una serie di progetti per i piccoli dell'isola e i profughi della vicina Haiti.

Ma c'è chi parte anche per farsi le ossa. «Ero curioso di conoscere la realtà africana e desideroso di migliorare la mia preparazione», spiega Stefano Parlamento, 28 anni, chirurgo, che ha iniziato a fare il volontario come iscritto al Sism, Segretariato italiano degli studenti in medicina, e oggi è tra i fondatori del Wolisso Project, un'iniziativa nazionale sui temi del diritto alla salute e della cooperazione internazionale. «Wolisso - racconta - non sapevamo né che esistesse, né tantomeno dove fosse. Per la verità non sapevamo neanche dove andare a dormire la prima notte, quando arrivammo in Etiopia, ad Addis Abeba».

Strada facendo sono arrivati l'esperienza e un coinvolgimento sempre maggiore. «Non si va nel sud del mondo per fare laboratorio con delle cavie - precisa Parlamento -. Una delle lezioni che si possono trarre da questo lavoro è che, alla fine, ogni persona che sta male è uguale a tutte le altre e non c'è un modo diverso di esercitare la professione medica. Certo, in un contesto di povertà assoluta è tutto più difficile, si incontrano ovunque ostacoli e complicazioni. Ma si impara a lavorare con risorse limitate, quindi ogni opportunità viene giocata al meglio e si scelgono le priorità, ben più di quanto non accada in Italia».

  CONTINUA ...»

8 febbraio 2010
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