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Il ristretto club degli ambasciatori rosa

di Claudio Gatti

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8 marzo 2010

Se c'è un club che per secoli è rimasto ristretto ai soli uomini è quello del corpo diplomatico. In Italia, come nel resto del mondo. Ma siamo nel 2010. La maggiore superpotenza mondiale ha un segretario di Stato di nome Hillary. E a rappresentare gli altri paesi nella sua capitale c'è un numero record di ambasciatori di sesso femminile: 25. Insomma, si può legittimamente dire che la diplomazia non è più un bastione maschile.
Questo non significa però che si sia raggiunta la parità tra i sessi. Né tantomeno che i progressi siano omogenei e diffusi ovunque: se gli Usa hanno 40 donne che svolgono la funzione di ambasciatore, Turchia, Corea del Sud e Arabia Saudita, tutti paesi del G-20, non ne hanno neppure una. La Russia ne ha appena due e il Giappone solo tre.
E l'Italia? I numeri nudi e crudi non sono buoni. Anzi, a una prima lettura rivelano un forte ritardo rispetto agli altri paesi europei e occidentali. La Farnesina ha infatti oggi solo nove donne a capo di una sede permanente all'estero. Su un totale di 132 missioni. La percentuale femminile scende ulteriormente se si prende in considerazione chi ha il grado formale di ambasciatore e non semplicemente la funzione di capo di una missione permanente (e in quanto tale è accreditato come ambasciatore nel paese che lo ospita): su un totale di 31, c'è una sola donna. Merita di essere menzionata: è Laura Mirachian, rappresentante permanente presso le organizzazioni internazionali a Ginevra.
Il paragone con i dati dei paesi scandinavi crea imbarazzo. La Svezia ha trenta donne che svolgono funzione di ambasciatore. La Norvegia 28, ma su un totale di 97 missioni. Quindi si parla di quasi un terzo del totale. In Filandia la percentuale è del 37 per cento. Siamo fanalino di coda anche rispetto agli altri grandi paesi dell'Unione europea. Ci superano di molto Gran Bretagna e Francia, e di poco Germania e Spagna. Nella classifica dei paesi del G-20, oltre che del Canada, siamo alle spalle di India, Brasile e Messico. Appaiati all'Argentina, paese però dove una donna è presidente della repubblica e un'altra governatore della banca centrale.
«A breve il numero di ambasciatori donne scenderà di due unità, perché le mie colleghe di Stoccolma e Oslo sono alla fine del loro mandato e a sostuirle sono già stati nominati due uomini. Aggiungo che nessuno degli ambasciatori di quest'ultimo giro di nomine è donna», fa notare Elisabetta Kelescian, ambasciatore a Helsinki.
Fin qui i numeri. Veniamo ora alle spiegazioni. La prima è che l'Italia è stata uno degli ultimi paesi occidentali ad aprire il proprio corpo diplomatico alle donne. Le prime due sono entrate vincendo il concorso nel 1967. «A rompere il ghiaccio fummo io e Jolanda Brunetti, prima donna a raggiungere il rango di ambasciatore in Italia - ricorda Anna Della Croce di Dojola, oggi ambasciatore a Stoccolma -. Ma siamo partite tardi. E i numeri sugli ambasciatori dimostrano che ne stiamo ancora soffrendo le conseguenze».
Il motivo è semplice: mentre in altri paesi, come negli Stati Uniti, al posto di ambasciatore ci si può arrivare per nomina politica, in Italia è esclusivamente il traguardo finale di una lunga carriera nel corpo diplomatico. Quindi non c'è modo di dare accelerazioni al processo fisiologico.
Dati più recenti sono allo stesso tempo indicativi del forte aumento della presenza femminile nel nostro corpo diplomatico, ma del continuo gap con i paesi nordici e anglosassoni. Negli ultimi due concorsi, nel 2007 e nel 2008, la quota di donne ammesse ha sfiorato il 38 per cento. Sono state 20 su 53. Visto che oggi le donne rappresentano circa il 15% del totale del nostro personale diplomatico, è un sensibile aumento. Buon segno per il futuro. Ma non ancora buono quanto quelli registrati in altri paesi. Negli Stati Uniti, per esempio, le donne rappresentano oltre il 50% dei nuovi ingressi nel Foreign Service. E così anche nei paesi nordici.
«La realtà è che il nostro sistema di carriera è molto più ingessato - spiega Della Croce di Dojola -. Nei paesi nordici se una donna si prende un'aspettativa e lascia il servizio per due o tre anni non perde nulla. In Svezia si può anche decidere di andare a fare un altro lavoro e poi tornare alla diplomazia senza ripercussioni negative. Perché il passaggio da un'amministrazione a un'altra non comporta penalizzazioni di carriera. Da noi non è possibile. Altra cosa: qui a mettersi in aspettativa può essere la moglie tanto quanto il marito».
Una conferma indiretta di questo assioma viene dall'esperienza personale di Rosa Maria Aurelia Chicco, ambasciatore in Estonia, che ha avuto la fortuna di aver trovato un marito disposto a riunciare alla propria carriera per seguirla in giro per il mondo: «Ci siamo conosciuti a Berna, dove lui lavorava per una banca svizzera. E dopo un po' lui ha convenuto che il mio lavoro era più interessante e lo ha lasciato per seguirmi. È stata senza dubbio una decisione coraggiosa, soprattutto se si considera che è stata presa trent'anni fa».
  CONTINUA ...»

8 marzo 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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