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RIFORME / Uno strike per i servizi locali

di Giulio Napolitano *

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8 OTTOBRE 2009

Con quattro riforme in otto anni, l'ultima nel decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri due settimane fa, quello dei servizi pubblici locali è senza dubbio uno dei campi normativamente più arati del nostro ordinamento. Ciò nonostante, il raccolto di tanta fatica legislativa è modesto. Se si eccettuano alcuni importanti processi di aggregazione aziendale nel nord Italia, infatti, il sistema di gestione è rimasto sostanzialmente immutato, accumulando così anche gravi ritardi tecnologici e industriali.
L'insuccesso delle riforme in materia di servizi pubblici locali dipende dalla continua ripetizione di due errori: l'uno di tecnica politico-legislativa, l'altro di strategia riformatrice. Da entrambi non appare del tutto immune anche la disciplina appena varata dall'esecutivo, nonostante alcune coraggiose innovazioni e taluni apprezzabili miglioramenti sul piano del drafting normativo.
Il primo errore risiede nell'illusione di poter sbaragliare con un colpo solo gli assetti oggi esistenti in servizi molto diversi tra loro (dal gas ai trasporti, dall'acqua ai rifiuti, solo per limitarsi ad alcuni esempi); per di più, con misure destinate a operare nello stesso modo a Milano e nel più piccolo dei comuni siciliani. Lo strike, però, è difficile, anche perché il nostro legislatore non è certo un esperto giocatore di bowling. E i birilli da far cadere contemporaneamente sono troppi: anche il ministro più determinato e la maggioranza parlamentare più larga finiscono così per essere spesso fiaccati dal fronte comune dell'intero sistema degli enti locali e delle loro aziende partecipate.
Ciò spiega perché i disegni di riforma più organici predisposti dai governi di centro-sinistra nel 1999 e nel 2006 non abbiano mai visto la luce; e perché siano rimaste scritte sulla carta le nuove norme, pur meno ambiziose, finalmente approvate nel 2001 (ma cancellate nel 2003) e nel 2008. Da questo punto di vista, la prossima conversione parlamentare del decreto legge costituirà un primo importante banco di prova anche per il testo appena uscito dal consiglio dei ministri.
L'altro errore deriva dalla confusione fra tre diversi obiettivi della riforma e dall'incapacità di perseguire ciascuno di essi fino in fondo.
Il primo obiettivo è quello della privatizzazione delle imprese pubbliche locali. Si tratta di un disegno tracciato già con le leggi adottate alla fine degli anni Novanta, con la semplificazione della trasformazione delle vecchie aziende municipalizzate in società di capitali e la loro quotazione in borsa. Da allora, però, l'obiettivo della privatizzazione è stato sostanzialmente abbandonato, sia perché è venuta meno l'idea della superiore efficienza della gestione privata, sia perché sono prevalsi veti e resistenze degli enti locali. Si spiega così la nuova fioritura di quello che è stato chiamato il "socialismo municipale". La riforma approvata dal governo sembra ora voler riprendere questa strategia, perché obbliga gli enti locali a scendere gradualmente sotto il 30% nelle società quotate per mantenere gli affidamenti diretti oggi esistenti in loro favore.
Il secondo obiettivo è quello della liberalizzazione. L'idea che si potesse sviluppare un'effettiva concorrenza sul mercato, tuttavia, non è mai stata coltivata. A partire dalla legge del 2001, invece, si è privilegiata la soluzione della concorrenza per il mercato, attraverso l'indizione di gare per l'assegnazione del servizio, direttamente o tramite la partecipazione a società miste. Molto poco, tuttavia, si è fatto per rendere trasparenti ed effettivamente competitive quelle gare. E troppo ampi sono stati deroghe e regimi transitori in favore degli affidamenti non concorsuali. Da un lato, l'abbandono della strategia della privatizzazione ha reso più difficile toccare le rendite di società pubbliche direttamente legate agli enti locali; dall'altro, il furbesco aggancio all'eccezione comunitaria in favore delle società fatte in casa (il cosiddetto in house) ha finito paradossalmente per incentivare l'integrale pubblicizzazione anche delle società miste che erano state costituite alla fine degli anni Novanta.
La riforma del 2008 e quella appena approvata puntano sulla gara come modalità ordinaria di affidamento del servizio e di selezione del socio privato responsabile della gestione. Inoltre, riprendendo una soluzione escogitata nel disegno di legge Lanzillotta del 2006, assegnano all'Autorità antitrust il compito di vagliare caso per caso l'effettivo ricorrere degli eccezionali presupposti, non solo giuridici ma anche economici, che giustificano il ricorso alla gestione pubblica in house. Ma, per svolgere bene questo lavoro, l'Autorità deve dare prova di efficienza amministrativa e di rigore nelle sue valutazioni tecniche, senza cedere a improprie mediazioni politiche. A loro volta, Governo e Parlamento sono chiamati ad assumere un solenne impegno a non prorogare ulteriormente i nuovi e più stringenti termini appena fissati per la scadenza degli affidamenti diretti e a non moltiplicare le previsioni derogatorie per i vari settori.
Rimane, infine, sullo sfondo il terzo obiettivo che una buona riforma dei servizi pubblici locali dovrebbe perseguire: quello di un'effettiva soddisfazione e tutela dei cittadini-consumatori. La loro protezione, infatti, non può essere affidata soltanto al funzionamento del processo politico a livello locale. Così come troppo deboli, nonostante le prescrizioni a favore degli utenti contenute nella legge finanziaria per il 2008, risultano le clausole dei contratti di servizio stipulati tra enti locali e gestori: anche perché viziate dal conflitto di interessi del Comune regolatore e allo stesso tempo azionista.
  CONTINUA ...»

8 OTTOBRE 2009
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