Il primo destinatario di questa Lettera è il direttore del Sole 24 Ore, Gianni Riotta, il quale, scrivendo domenica scorsa di quella che già viene indicata come la debolezza di Obama, ha toccato in realtà uno dei temi nevralgici per le democrazie del nostro tempo, negli Stati Uniti e altrove: il rapporto fra l'azione di governo, i modi in cui viene presentata e discussa davanti all'opinione pubblica e il consenso di cui dispongono i governanti per far passare poi le loro misure nelle assemblee legislative. Basta avere una solida maggioranza in parlamento e bastano i tradizionali richiami alla lealtà dei suoi componenti per farsi approvare misure che siano fortemente ed efficacemente contrastate sui mezzi di comunicazione? Non sono oggi le due arene inesorabilmente intrecciate, tanto da richiedere ai governi di essere presenti su entrambe e capaci su entrambe di far valere le loro ragioni?
E non è questa la vera sutura che si è venuta realizzando fra istituzioni e società civile, fra democrazia rappresentativa e democrazia dei cittadini, con tutta una serie di conseguenze, positive e negative, di cui ancora non siamo neppure pienamente consapevoli? Ha scritto Gianni Riotta che il nuovo Presidente americano ha finora vissuto del successo assicuratogli dall'eleganza e dalla forza retorica delle sue parole. Ma se la sua riforma sanitaria è ferma al Congresso non è solo per la propaganda contraria delle formidabili lobby della sanità. È lui stesso che dovrebbe andare oltre le sue belle parole ed essere scalpellino di quel consenso che ogni Presidente deve riuscire a conquistarsi nella prassi quotidiana della vita politica. Ma questo Obama non ha ancora dimostrato di saperlo fare.
È da tempo che questa critica aleggia sulla testa di Obama e se i primi a farla sono stati i suoi oppositori politici (cominciò il Wall Street Journal a scrivere che un Presidente lo si elegge perché agisca, non perché parli) ciò non significa che sia infondata. Del resto, anche di John Fitzgerald Kennedy dopo un po' si diceva la stessa cosa, auspicando una maggior concretezza in quel secondo mandato che egli però non ebbe modo di vivere. Fatto si è che le sue promesse in tema di diritti civili diventarono legge grazie al lavoro, invocato oggi da Riotta, che seppe fare con il Congresso il suo successore Lyndon Johnson.
Ma come può Obama convincere oggi deputati e senatori a votare la riforma sanitaria? Basta che li chiami a uno a uno, che metta in gioco il suo personale sostegno a ciascuno alle prossime elezioni o che prometta nomine e aiuti utili ai rispettivi distretti elettorali? La riforma è oggetto di un vero e proprio bombardamento, ispirato dall'alleanza fra assicurazioni, ospedali privati, industrie del settore e grandi studi professionali, che da una parte la accusano di provocare una lievitazione delle tasse, dall'altra di puntare all'abbandono degli anziani, se non addirittura alla loro eutanasia, per ridurre le spese.
Il bombardamento è cavalcato dall'opposizione e si rinnova quotidianamente sui media, grazie anche alla partecipazione attiva di influenti opinion makers. I parlamentari perciò si sentono l'erba tagliata sotto i piedi e davanti al rischio di perdere comunque il consenso, c'è poco che il Presidente possa fare per rinsaldarli. Poco, a meno che non contrasti il bombardamento, a meno quindi che sullo stesso terreno degli avversari e fuori perciò dal Congresso, non vinca la battaglia del consenso.
Ecco allora le due arene che si incrociano ed ecco la necessità che il Presidente che agisce si avvalga del Presidente che parla. Certo, il Presidente che parla in questo contesto non deve essere quello delle parole eleganti, la cui insufficienza è giustamente lamentata da Gianni Riotta. Deve essere un Presidente che sommerge di argomenti concreti gli oppositori, che dimostra la falsità delle loro accuse, che sa attraversare con le sue verità sia i canali più diversi che portano all'opinione pubblica, sia gli usuali e più confidenziali percorsi degli incontri coi congressmen.
I documenti sfornati dai consiglieri economici della Casa Bianca ci dicono che i materiali per questa campagna ci sono tutti e non suggeriscono esercitazioni retoriche. Vi leggiamo che i costi in più ci saranno non se ci sarà la riforma, ma se non ci sarà. La spesa sanitaria passerà infatti dall'attuale 18% del Pil al 28% del 2030 e al 34% del 2040 (cifre pazzesche), farà crescere il debito pubblico a causa del costo accresciuto degli esistenti programmi federali e si mangerà tutti gli aumenti salariali del trentennio, congelando così di fatto gli stessi salari. Vi leggiamo inoltre che le piccole imprese pagano il 18% in più delle grandi per dare assistenza sanitaria ai propri dipendenti, con l'effetto che un numero crescente di loro rinuncia a farlo o assicura contro rischi sanitari sempre più limitati. Vi si spiega infine come i diversi ingredienti della riforma - maggior concorrenza fra le assicurazioni, volumi più alti di assicurati, sussidi e crediti d'imposta - ridurranno i costi complessivi, e già una riduzione dell'1,5% nel giro di vent'anni aumenterà i redditi medi di 10mila dollari l'anno e ridurrà del 6% il debito pubblico.
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