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IL DIBATTITO SULLA RU486 / Una pillola non dà la libertà

di Eugenia Roccella

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9 agosto 2009

Nel nostro paese il dibattito sulla biopolitica non riesce a sganciarsi dallo schema interpretativo dell'opposizione laici-cattolici. Lo schema è semplice: i laici sono dalla parte della scienza, il progresso, la libertà; i cattolici, ma soprattutto le gerarchie vaticane, restano ancorati a un atteggiamento oscurantista, coercitivo e punitivo, di pregiudiziale chiusura nei confronti del futuro. Qualunque informazione contraddica o sfugga a questa impostazione viene ignorata o cancellata.

Accade così che i commenti sull'introduzione in Italia della pillola abortiva, la Ru486, partano quasi sempre da un errore di fondo, che inficia ogni ragionamento successivo: e cioè che il metodo chimico sia migliore, più moderno, più efficace e indolore di quello cosiddetto chirurgico (che è in realtà il metodo per aspirazione).

Non è così, come si evince chiaramente dalla letteratura scientifica sul metodo; ricordo ancora, in una trasmissione televisiva, lo stupore del conduttore quando Elisabeth Aubény, una delle ricercatrici che hanno creato la pillola, ammise con serenità che sì, il metodo chimico ovviamente provoca più sofferenza di quello chirurgico.

Si tratta di due pillole, prese a distanza di 48 ore l'una dall'altra. La prima, il mifepristone, provoca la morte dell'embrione, la seconda, una prostaglandina, produce le contrazioni uterine che portano al vero e proprio aborto. È, insomma, una sorta di piccolo parto indotto, e ogni donna sa che è ridicolo definire le contrazioni espulsive indolori. Il metodo è meno efficace di quello chirurgico, molto più lungo (l'intera procedura dura almeno 15 giorni), decisamente più rischioso (il tasso di mortalità è 10 volte maggiore), ma ha un grande vantaggio: proprio l'impossibilità di stabilire il momento dell'espulsione lo rende un metodo intrinsecamente domiciliare, che tocca alle donne gestire, senza la presenza del medico. È la donna che deve controllare il flusso di sangue, vedere l'embrione abortito, stabilire se è in corso un'emorragia e se è il caso di precipitarsi in ospedale; è lei che deve verificare la temperatura, decidendo se si tratta di normale alterazione o dei primi sintomi di un'infezione; è sempre lei che deve scegliere se arginare il dolore con gli oppiacei o chiamare il medico.

Alla paziente, nei paesi in cui il farmaco è più diffuso, vengono consegnate le pillole, gli antidolorifici, gli antibiotici, il foglietto con le istruzioni, il numero di telefono di un ginecologo, ma per il resto deve vedersela da sola. In alcuni casi c'è un questionario di accesso, che impone una verifica della competenza linguistica della donna, e l'esistenza di requisiti socio-psicologici (tra cui la resistenza al dolore). Si tratta davvero di maggiore libertà, o solo del disinteresse della società per un evento doloroso, che è sempre stato confinato nel privato femminile, e oggi, grazie a una pillola, torna a esserlo?

Appare evidente che le garanzie sanitarie offerte dal metodo chirurgico, monitorato dall'inizio alla fine e praticato in una struttura sanitaria pubblica, non possono essere le stesse di un metodo in cui le valutazioni cliniche sono affidate alla paziente. Per questo il Consiglio superiore di Sanità, in due diverse occasioni, ha emesso pareri concordi sulla sicurezza della pillola: il metodo chimico è sicuro quanto quello chirurgico solo se l'intera procedura viene completata in ospedale, in regime di ricovero.

Bisognerebbe aggiungere molto altro. Per esempio che a dire no alla pillola abortiva è stata prima di tutto una parte del femminismo internazionale, oppure che ancora troppa oscurità circonda il numero di morti collegate alla Ru486 (ad oggi sembra siano 31). Ma il punto più delicato riguarda la legge 194. È difficile infatti che il metodo chimico possa essere compatibile con la legge italiana, che impone che l'aborto avvenga nelle strutture pubbliche. Si può prevedere che la paziente si ricoveri fino a espulsione avvenuta, come suggerisce il Consiglio superiore di sanità e la stessa Aifa, ma il metodo non sarebbe competitivo, e comunque è facile che si diffonda la pratica delle dimissioni volontarie.

In questo modo si svuoterebbe nei fatti la legge 194. È esattamente quello che è accaduto in Francia, dove in un primo tempo si è introdotta la Ru486, e in seguito si è cambiata la legge (all'inizio molto simile alla nostra) adeguandola alla nuova prassi. Questo è, secondo me, il vero obiettivo di tanti politici che sostengono il farmaco, questo è il motivo per cui, prima ancora che la ditta che lo produce ne chiedesse la commercializzazione, alcuni consigli regionali e comunali hanno votato per il suo uso.
Chi ha sempre voluto cambiare la legge, eliminando la presa in carico sociale dell'aborto e trasformandolo esclusivamente in un diritto individuale e privato ha capito che la pillola può essere la leva che scardina una normativa difficile da modificare in Parlamento. La questione, dunque, è politica, e non soltanto culturale.

  CONTINUA ...»

9 agosto 2009
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