Il tasso di cambio di un paese non può essere un problema che riguarda solo quel paese, perché influenza anche i suoi partner commerciali. Ma è particolarmente vero per le grandi economie. Perciò, piaccia o non piaccia alla Cina, il suo regime manovrato dei tassi di cambio è motivo di legittima preoccupazione per i suoi partner commerciali. Le esportazioni della Cina ormai superano largamente quelle di qualsiasi altro paese. La libertà dell'insignificanza è finita.
Naturalmente i cinesi non accettano queste pressioni. Alla conclusione di un vertice fra Cina-Ue la settimana scorsa a Nanchino, Wen Jiabao, il premier cinese, si è lamentato delle richieste rivolte al suo governo perché consenta un apprezzamento dello yuan. Ha protestato dicendo che «alcuni paesi da un lato vogliono che il renminbi cresca di valore, ma dall'altro lato applicano misure sfacciatamente protezionistiche contro la Cina. Questo è ingiusto. Le misure di questi paesi limitano lo sviluppo della Cina». Il primo ministro cinese ha anche ripetuto il mantra tradizionale: «Manterremo la stabilità del renminbi su un livello ragionevole ed equilibrato».
Possiamo dare quattro risposte ovvie al signor Wen. La prima è che, indipendentemente dalla percezione che ne hanno in Cina, il protezionismo ai loro danni è rimasto su livelli straordinariamente bassi, considerando la portata della recessione. La seconda è che la politica di tenere basso il tasso di cambio è equivalente a un sussidio alle esportazioni e a un dazio, a tasso uniforme: in altre parole, è protezionismo. La terza è che avendo accumulato, alla data di settembre, 2.273 miliardi di dollari di riserve in valuta estera, la Cina ha tenuto basso il tasso di cambio a livelli che non hanno precedenti nella storia economica mondiale. L'ultima cosa è che la Cina, in questo modo, ha provocato effetti distorsivi sulla sua economia e su quella del resto del mondo. Il suo tasso di cambio reale, per fare un esempio, è agli stessi livelli dell'inizio del 1998 e si è deprezzato del 12% nel corso dei sette mesi trascorsi, nonostante la Cina abbia l'economia che cresce più rapidamente fra tutte le economie mondiali e il surplus più grande di tutti nel saldo con l'estero.
Queste politiche sono rilevanti per la Cina e per il mondo? La risposta è sì. Mark Carney, governatore della Banca del Canada, osserva in un recente discorso, che «i grandi e insostenibili squilibri nella bilancia delle partite correnti fra le principali aeree economiche sono stati un elemento essenziale all'origine delle vulnerabilità sviluppatesi su molti mercati delle attività. Negli ultimi anni, il sistema monetario internazionale non è riuscito a promuovere aggiustamenti economici tempestivi e ordinati». Carney ha ragione.
Quello che stiamo vedendo, come segnala il governatore della Banca del Canada, è un'incapacità di adeguarsi ai cambiamenti della competitività globale che ha alcuni precedenti infelici, in particolare durante gli anni 20 e 30, con l'ascesa degli Stati Uniti, e di nuovo negli anni 60 e 70, con l'ascesa dell'Europa e del Giappone. Come osserva sempre Carney, «l'integrazione della Cina nell'economia mondiale rappresenta da sola uno shock molto più grande per il sistema di quanto non fu l'emersione degli Stati Uniti all'inizio del secolo scorso. La percentuale della Cina sul Pil mondiale cresce più rapidamente e la sua economia è molto più aperta».
Inoltre, oggi, il tasso di cambio manovrato della Cina è abbastanza diverso da quello delle altri grandi economie, e non era così quando gli Stati Uniti assunsero un ruolo preminente. Pertanto, il tasso di cambio manovrato della Cina scarica la pressione dell'aggiustamento su altri paesi. Era un elemento dirompente già prima della crisi, ma adesso, in questa fase di dopo-crisi, è ancora peggio: alcuni paesi avanzati, in particolare il Canada, il Giappone e quelli della zona euro, hanno già subìto forti rivalutazioni della loro valuta. Non sono soli.
Sfortunatamente, come sappiamo da tempo, ci sono due tipi di paesi immuni alle pressioni esterne per modificare politiche che influenzano gli "squilibri" globali: il paese che emette la valuta chiave a livello mondiale e i paesi in surplus. Pertanto, lo stallo attuale potrebbe continuare per un po' di tempo. Ma i pericoli che determinerebbe sono anch'essi evidenti. Se, per esempio, il surplus nel saldo con l'estero della Cina dovesse tornare ad avvicinarsi al 10% del Pil, il surplus del paese potrebbe arrivare nel 2018 a 800 miliardi di dollari, in dollari odierni.
Chi potrebbe assorbire cifre del genere? Le famiglie americane sono oberate dai debiti, e lo stesso vale per la maggior parte degli altri paesi che presentano forti deficit nel saldo con l'estero. Ecco perché adesso sono i governi i prestatori di ultima istanza.
Per i paesi in deficit con l'estero, la preoccupazione è come ridurre il disavanzo di bilancio senza far ricadere la loro economia in recessione. È una missione impossibile, a meno di riuscire a far tornare il settore privato a spendere e indebitarsi come prima, o a meno di godere di una rapida espansione dell'export. Fra le due opzioni, la seconda è meno pericolosa. Ma questo, a sua volta, succederà solo se i paesi in surplus espanderanno la domanda più velocemente della produzione potenziale. In questo gioco la Cina è il giocatore più importante.
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