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Il Pdl e la trappola del carisma

di Stefano Folli

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27 marzo 2009

I bambini nati nella primavera del 1994, quando Silvio Berlusconi scese in campo, oggi vanno al liceo. Non possono ancora votare, ma a quel giorno non manca molto. E quando arriverà, è possibile che molti di loro sosterranno l'uomo che li accompagna dalla nascita e che è ancora sulla breccia.
Quindici anni sono un tempo infinito nella politica moderna. È vero che non hanno visto sempre Berlusconi a Palazzo Chigi: ci sono stati periodi in cui hanno governato altri, in particolare Romano Prodi due volte. Ma è vero che questi tre lustri sono stati condizionati in misura decisiva dalla presenza di Berlusconi sul palcoscenico romano. Per cui è corretto parlare – tra cadute e resurrezioni – di egemonia politica berlusconiana, che ha permeato di sé una lunga stagione della vita nazionale, condizionando i comportamenti e le scelte di alleati e avversari. Senza Berlusconi, è quasi ovvio notarlo, il sistema politico sarebbe stato diverso. Lo stesso centro-sinistra, oggi confluito nel Partito Democratico, avrebbe conosciuto un'altra storia e seguìto un altro percorso.
Al di là del giudizio storico, e per quanto il parallelo possa sembrare avventuroso, l'egemonia berlusconiana nell'Italia di oggi può essere paragonata a quella esercitata da Giovanni Giolitti nei primi anni del '900, fino allo scoppio della Grande Guerra. Le differenze sono evidenti e clamorose, anche perché il sistema politico era del tutto diverso, ma c'è un'analogia: come il suo lontano predecessore, anche Berlusconi fonda il potere sulle proprie capacità personali, nonché sulla propria influenza su uomini e situazioni. Più che a una forza organizzata, egli si affida al carisma. Un fattore che ha creato intorno a lui amori appassionati e odii perenni, dividendo il Paese come mai dall'avvento della Repubblica.
Oggi questo personaggio anomalo e cruciale per i destini collettivi tiene a battesimo il Popolo della Libertà: è il suo partito, il più che prevedibile approdo del cammino cominciato nel '94 e reiterato di recente sul famoso predellino di Milano. Si dirà che si tratta quasi di un non-evento, dato che il Pdl esiste già nei rapporti politici, si è presentato alle elezioni e supporta l'azione del Governo. Nessuno crede che da lunedì cambierà qualcosa.
Le fortune del centro-destra continueranno a essere affidate al carisma e alla leadership di Berlusconi, esattamente come è accaduto fino a oggi.
Se il presidente del Consiglio avrà successo, mantenendo il suo smalto quindicennale agli occhi dell'opinione pubblica, il Pdl avrà vita prospera. In caso contrario, è tutto da dimostrare che il nuovo partito riesca a sopravvivere al declino del suo leader e fondatore. L'impronta di Berlusconi sulla sua creatura è totale, le regole interne pressoché inesistenti, le prospettive tutte legate alle fortune del presidente del Consiglio. Chi vota Berlusconi in fondo non ha bisogno di un partito.
Eppure la nascita ufficiale della nuova formazione è un fatto di rilievo. In primo luogo, perché testimonia di un certo dinamismo della politica italiana. Siamo in presenza di un processo di assestamento verso un sostanziale bipartitismo, che può piacere o non piacere (e c'è chi lo avversa con tenacia), ma che non può essere ignorato. Senza dubbio l'egemonia berlusconiana trova la sua consacrazione, nel momento in cui il congresso, nella scenografia e nella regia, celebra il carisma del capo.
Se fosse solo questo, tuttavia, le giornate della Fiera di Roma sarebbero quasi inutili. Quello che ci si attende da Berlusconi è un passo avanti, un'indicazione sul futuro del Paese. Una visione non generica e non solo egocentrica. Finora il leader si è nutrito della propria personalità e ha fatto omaggio di se stesso agli italiani. Ma il domani del Pdl come «partito liberale di massa», semmai questa espressione ha avuto un senso, si lega alla fine della dimensione carismatica e all'avvio di una nuova epoca.
Allo stato delle cose, c'è da essere scettici. Nel bene e nel male, Berlusconi è da sempre uguale a se stesso. Il partito gli serve come tribuna per considerarsi sempre in campagna elettorale, a caccia di consensi: l'attività che forse gli è più congeniale. Aver fatto precedere il congresso dall'avvio del termovalorizzatore di Acerra, o dalla linea superveloce Roma-Milano, rappresenta un colpo d'immagine. Aiuta a dimenticare lo smacco, forse provvisorio, del «piano casa».
Contribuisce a rinverdire il mito dell'uomo «del fare».
Perché Berlusconi dovrebbe rinunciare alla dimensione carismatica, l'unica in cui si sente a suo agio?
Una possibile risposta riguarda la definizione di progetto adeguato e non propagandistico per la modernizzazione dell'Italia. Un complesso di riforme e di innovazioni, istituzionali e amministrative, che richiedono tra l'altro un coinvolgimento dell'opposizione. Sarebbe interessante se il congresso fondativo del Pdl e il suo leader si inoltrassero lungo questo sentiero.
In fondo è quello che propone Gianfranco Fini. E non è un caso se proprio alla vigilia del congresso siano riemerse le due diverse idee delle istituzioni (e del ruolo del Parlamento) interpretate dal premier e dal presidente della Camera. L'ennesima tensione tra i due aiuta a capire perché esista una divergenza di non poco conto al vertice del Pdl. Fini non ha un ruolo politico diretto, ma incarna una funzione istituzionale che gli offre un rilevante potere d'interdizione nei confronti del premier e del suo populismo.
  CONTINUA ...»

27 marzo 2009
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