Con l'elezione di un presidente democratico, il fantasma del protezionismo torna a essere evocato e a spaventare chi osserva la prima vera crisi dell'economia globale. Ma Barack Obama non potrà restituire agli Stati Uniti, come aspira, il ruolo di modello dei valori nel mondo e promuovere allo stesso tempo un programma protezionista. Tra questi due obiettivi c'è una contraddizione insanabile. E perfino in politica, la realtà si incarica di separare ciò che la propaganda elettorale troppo furtivamente unisce.
Le gravi emergenze dell'economia peseranno sulla presidenza di Obama e l'Amministrazione dovrà presto preoccuparsi del consenso nel Paese; ciò nonostante le logiche politiche isolazioniste, oltre a danneggiare la leadership americana globale, sono destinate a fallire come è successo con la presidenza Bush. L'unilateralismo americano si basava su una piramide che da anni non esiste più: al vertice un potere militare incontrastato, più sotto un'economia in cui Washington grazie al dollaro aveva l'arbitrio dell'irresponsabilità monetaria. Alla base, il potente irradiamento culturale di una società dinamica e aperta.
Ora il potere militare si è dimostrato insufficiente nelle ultime guerre fallimentari. L'economia americana ha sofferto proprio a causa dell'irresponsabilità monetaria che ha permesso l'esplosione dei debiti sia pubblici sia privati. L'interdipendenza globale è cresciuta in molti campi – dal rapporto con l'ambiente al terrorismo, dagli scambi finanziari alla proliferazione nucleare, dalle malattie al commercio – in forme di potere diffuso ormai estranee ai controlli esclusivi degli Stati. Infine alla base della piramide la rivoluzione tecnologica dell'informazione vanifica le barriere culturali dei poteri nazionali.
Il presidente Obama non è il profeta di questo mondo non più piramidale, ma ne è pur sempre il testimone. La sua figura, come è stato narrato, incarna la diversità di chi è antagonista alle gerarchie storiche. La sua favolosa orbita personale è la metafora delle speranze di chi sente strette le logiche delle identità - come diceva Wittgenstein, non c'è nulla di più inutile che discutere di ciò che è uguale a se stesso – e incarna con la sua fisionomia meticcia l'archetipo di due terzi di un'umanità divenuta mobile, rappresentando il credibile testimone del dialogo globale.
Obama ne pare consapevole. A suo dire Bush diede a un attacco non convenzionale come quello dell'11 settembre, una risposta convenzionale come la guerra tra Stati ("Foreign Affairs", luglio 2007). Contro l'unilateralismo del predecessore il neo presidente richiama la lezione di Roosevelt e Kennedy che proposero istituzioni e coalizioni per la pace. La sua credibilità personale già oggi non ha pari nel mondo extra-americano. È dunque nelle condizioni per dare voce al dialogo globale il cui linguaggio non può che essere quello della cooperazione economica.
Come si può conciliare questa vocazione globale con la retorica protezionista? Durante la campagna Obama ha insistito per includere standard ambientali e di sicurezza del lavoro negli accordi commerciali, ha chiesto dazi all'import dalla Cina per compensare la sottovalutazione dello yuan e ha proposto maggiori controlli sui fondi sovrani. Nelle sue dichiarazioni ricorre l'obiettivo di difendere i posti di lavoro americani. Le tesi dei suoi scritti sono più liberali di quelle della media del partito democratico, influenzato da sindacati desiderosi di rivincite, ma in tempi di depressione economica la crisi di Wall Street offre un palcoscenico ideale per una revisione anti-capitalista.
Non c'è d'altronde bisogno di vendette per giustificare le istanze di equità nell'economia globale. Paul Krugman ha vinto un Nobel osservando che il consenso tradizionale per la teoria dei vantaggi comparati corrisponde a commerci tra Paesi con strutture economiche simili, ma quando le differenze di reddito sono ampie come nel caso dei nuovi Paesi emergenti, il commercio finisce per produrre grandi vincitori, ma anche una moltitudine di grandi perdenti. L'import americano da Paesi del terzo mondo è cresciuto dal 2,5% del Pil nel '90 al 6% di oggi, ma se allora i Paesi partner (le tigri asiatiche) avevano una differenza di livello di salari con gli Usa di uno a quattro, oggi con la Cina le differenze sono 8 volte più grandi.
Politiche protezioniste, per esempio dazi americani sul commercio, finirebbero però per isolare gli Stati Uniti dagli scambi multilaterali all'interno dei quali – come ha dichiarato Paul Samuelson a Mario Platero sul Sole 24 Ore del 4 novembre – la crescita dei Paesi emergenti non è più arrestabile.
Ciò non significa che Obama sia disarmato. Introdurre logiche di equità nel commercio mondiale sarebbe coerente con la difesa di valori in cui gli Stati Uniti si sono spesso riconosciuti, ma perché l'equità non sia una maschera dell'egoismo è necessario che venga concordata con i partner nelle istituzioni della cooperazione economica mondiale, rinunciando ai negoziati bilaterali tanto amati dalle burocrazie, a cui garantiscono un ruolo decisivo, e molto adatti a nascondere il protezionismo dentro i regolamenti applicativi dei principi formali.
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