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Vecchie e nuove barriere della nostra paura

di Alberto Negri

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10 Novembre 2009

Il giovane Brahim Hussein Labeid il 10 aprile scorso partecipava alla catena umana davanti al muro militare marocchino che da oltre vent'anni divide in due il Sahara Occidentale, l'ex colonia spagnola contesa tra Marocco, Algeria, Mauritania. Insieme al compagno Mohammed Larusi, un altro saharawi del campo profughi di Dajla, ha attraversato la zona di sicurezza tra muro e recinzione. Il vento era teso e sollevava mulinelli di sabbia tra le postazioni dell'esercito e la dura ostinazione dei saharawi, un popolo che dagli anni Settanta rivendica l'indipendenza, gente capace, dicono i nomadi, di scavare un pozzo con un ago. Sotto gli occhi dei soldati, i saharawi hanno aperto una breccia nel filo spinato. I marocchini non sono intervenuti, al riparo di una fortificazione alta qualche metro e rinforzata da un decennio di lavori meticolosi. Brahim è saltato dall'altra parte: sotto la sabbia lo aspettava una mina anti-uomo che è esplosa tranciandogli una gamba. Brahim, 16 anni, è una delle ultime vittime delle divisioni del Sahara.

I Muri e le barriere, che siano di cemento, sabbia o lamiera, invece di diminuire si moltiplicano, dall'Africa all'America Latina, dal Medio Oriente all'Asia. Quando fu abbattutto il simbolo della guerra fredda a Berlino quell'immagine accese ovunque una speranza: dalle macerie sarebbe sorto un nuovo ordine che avrebbe demolito gli steccati tra le nazioni. Quasi nessuno si preoccupò dell'Afghanistan, dove soltanto pochi mesi prima, il 2 febbraio 1989, si era ritirata sconfitta l'Arma Rossa, e pochi quello stesso anno si curarono della Jugoslavia e delle prime avvisaglie di una guerra che avrebbe eretto nuovi e sanguinosi confini nel cuore dell'Europa. Nei Balcani per un decennio si sono sbriciolati i ponti e costruite le trincee della pulizia etnica.

I nuovi muri stanno proliferando, aggiungendosi a quelli più antichi, come quello che dal 1953, lungo 240 chilometri, si snoda sulla zona demilitarizzata che separa le due Coree. Israeliani e palestinesi sono separati da 700 chilometri di blocchi di cemento alti 8 metri che per gli arabi rappresentano il muro della vergogna, per gli ebrei una protezione indispensabile. Il muro della Palestina, che ha inghiottito un altro 7% della Cisgiordania, ha ridotto gli attentati ma non ha evitato, quest'anno, un'altra guerra. Le divisioni qui appaiono ancora più alte di prima, quasi insormontabili. Altrove, e proprio in Europa, nelle barriere sono state aperte delle brecce ma non è caduta l'ostilità che le teneva in piedi. Nella primavera del 2008 a Cipro, tra lanci di palloncini e discorsi ufficiali, è stato riaperto il valico di Ledra Street, tra la parte turca e quella greca dell'isola divisa dalla guerra del 1974, quando le truppe di Ankara la invasero in risposta al tentativo di colpo di stato ellenico. Oggi si può passeggiare attraversando la Linea Verde ma l'avvenire resta incerto. Cipro greca intanto è entrata nell'Unione, appartiene alla zona euro ma rimane al centro di una perenne contesa che frena l'ingresso della Turchia in Europa.

A Belfast decine di “linee della pace” dividono ancora ghetti protestanti e cattolici e in Irlanda del Nord sono ripresi gli attentati delle frange scissioniste dell'Ira. Una di queste si chiama “Ira per la continuità”. Di quale continuità si tratti è facile intuirlo perché le decine di muri eretti negli anni ‘70 sono ancora al loro posto. Il muro più famoso corre lungo Cupar Street. Da una parte c'è il quartiere protestante di Shankill Road, dall'altra quello cattolico di Falls Road. La barriera è lunga più di un chilometro e può essere oltrepassata solo al check-point di Lanark Way, che la polizia chiude ogni sera alle nove. Ma ce ne sono altri, uno taglia in due i giardini vittoriani di Alexandra Park: qui sono gli alberi, l'erba, i fiori, che possono essere cattolici o protestanti.

Le avversioni religiose e confessionali, la guerriglia e il terrorismo, sono tra i maggiori incentivi per l'edilizia della separazione. Dopo l'occupazione americana dell'Iraq nel 2003, Baghdad è scomparsa dietro le barriere di divisione tra sciiti e sunniti. Centomila tonnellate di cemento hanno disegnato una nuova geografia sigillando quartieri e ponti, mentre si scatenava una carneficina confessionale che ha cancellato le aree miste, trasformandole in zone “purificate”. Gli abitanti si sono abituati a vivere in strade sbarrate dal filo spinato, a compiere lunghi giri per attraversare il Tigri. La mappa della città si è modellata secondo lo schema della “pulizia” settaria e religiosa, con l'espulsione di migliaia di iracheni. I profughi sono quattro milioni: Baghdad un giorno rinascerà, ma a caro prezzo.

Ci sono trincee esterne, contro gli immigrati - come a Cueta e Melilla - i terroristi, le popolazioni in fuga, ma anche interne, destinate a separare la città “ordinata” da quella degradata, come è avvenuto a Città del Messico, dove una barriera di tangenziali obbliga gli abitanti delle periferie a un giro di decine di chilometri per arrivare allo Zocalo, il salotto della capitale. Una sorta di cordone sanitario per isolare, proteggere ed escludere, largamente condiviso in tutte le megalopoli, da Los Angeles a Rio, da Buenos Aires a Istanbul. Abbiamo paura e il muro ci dovrebbe proteggere dalle intrusioni non desiderate, dagli incontri non voluti. Il nostro paesaggio si è ormai abituato ai bunker urbani, circondati da alte inferriate e muri d'acciaio sorvegliati.

  CONTINUA ...»

10 Novembre 2009
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