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Nel «Far West» di Poipet

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"There is a lot of bad people, gambling and always trying to cheat you."
Mi avevano avvertito in tanti. Più o meno tutti quelli che stavano cercando di vendermi un pacchetto completo per andare da Bangkok a Siem Reap. Poipet non è un posto sicuro, ripetevano. E anche sui libri che avevo con me, la città era descritta come una specie di "Far West cambogiano". Nonostante tutto, però, il confine volevo passarlo per conto mio. Per accorgermi di stare entrando in Cambogia invece di ritrovarmi rapidamente catapultato dalla capitale thailandese ai templi di Angkor. In fondo, chi mi metteva in guardia stava soprattutto cercando di vendermi un biglietto.
Polverosa, caotica, crocevia di contrabbandieri e truffatori, Poipet rappresenta ancora la strada maestra per entrare dalla Thailandia, il confine storico tra le due nazioni. Qui, Tiziano Terzani fu quasi fucilato dai Khmer Rossi, quando varcò per primo la frontiera dopo la presa di Phnom Penh. Da Aranyaprathet, ultimo centro thailandese, i giornalisti di mezzo mondo stettero, poi, per mesi a spiare quell'angolo della neonata Kampuchea Democratica, ormai ermeticamente chiusa. Poipet rimase, così, a lungo uno dei pochissimi punti di osservazione, una sorta di buco della serratura su quella nuova, misteriosa società. Dal ponte in ferro che valicava il confine, attraverso un groviglio di filo spinato, si intravvedeva una città spettrale, deserta, nella quale gruppi di giovanissimi guerriglieri si muovevano come ombre. Sempre da qui, sarebbero incominciati ad arrivare, pochi mesi dopo, i primi profughi in fuga dalla sanguinaria follia di Pol Pot.

Oggi Poipet non è più nulla di tutto questo. E' semplicemente uno squallido agglomerato di casinò, percorso da viaggiatori, affaristi e avventurieri. Il viaggio fino ad Aranyaprathet è stato facile e piuttosto comodo. Sei ore su di un lento ma grazioso trenino thailandese, con delle panche in legno per sedili, mi sono costate poco meno di un euro. Alla stazione mi basta scegliere uno dei tanti "tuk-tuk", (i risciò a motore), con i conducenti che si sbracciano a caccia di clienti.
L'autista, naturalmente, non mi accompagna subito alla frontiera come mi ha, invece, assicurato. Prima, si ferma davanti ad una specie di agenzia che dovrebbe "aiutarmi" per il visto e solo il mio tono vagamente minaccioso lo convince a ripartire senza perdere altro tempo. Non c'è verso, tuttavia, di farmi portare direttamente al confine. Alla fine mi scarica davanti ad un consolato cambogiano, dal quale esco con il visto che, tutto sommato, mi è costato la tariffa prevista.
Mano a mano che avanzo, a piedi, l'atmosfera incomincia a cambiare. La dolcezza della campagna thailandese, sparisce quasi all'improvviso quando la strada diventa un lungo serpente metallico, fatto di interminabili file di camion che sputano smog dai tubi di scappamento traballanti. Piccoli gruppi di bambini mi circondano, tendendo le mani mentre si aggrappano giusto all'altezza delle tasche. Non a caso, " Be aware to pickpokets" è scritto su tutti i cartelli appesi ai muri.
D'un tratto, alla mia sinistra vedo una sorta di autocarro. Al posto del telo, però, è chiuso dal reticolato di una gabbia alla quale un groviglio di mani si tiene aggrappato. Dentro, le persone sono ammassate una all'altra. Devono essere cambogiani che hanno cercato di attraversare clandestinamente il confine.
Sbrigate le formalità per l'uscita dalla Thailandia, mi ritrovo finalmente a Poipet. Non mi resta che varcare una grossa porta, modellata approssimativamente sulle forme dei templi Khmer di Angkor, con una targa sulla quale si legge uno scolorito "Kingdom of Cambodia".
Poco dopo, mentre aspetto che i poliziotti mi timbrino il passaporto, non posso fare a meno di notare le differenze rispetto all'ufficio thailandese. Un grande locale moderno, raffreddato da una forte aria condizionata, luminoso, con i soffitti alti e sei sportelli per smaltire le code. Il corrispettivo cambogiano è uno stanzino buio, caldo e umido, il cui unico arredamento consiste in una pancaccia di legno. In fondo ci sono solo due guardiole, occupate da agenti dall'aria indolente e dall'aspetto trasandato.
Appeso al muro scrostato, c'è un foglio con un numero di telefono. Denunciate gli abusi sessuali sui minori, dice. La pedofilia è una delle piaghe più terribili e tristemente note della Cambogia e il fatto che le autorità ne prendano, infine, atto è un buon inizio. Questo non significa, però, che il governo, corrotto e apatico, si preoccupi davvero di contrastare il fenomeno oltre che di darne l'impressione. Mentre mi segno il numero, il poliziotto mi restituisce il passaporto.
Quando esco il cielo ha cambiato colore, chiuso da una fitta coltre di nuvole lattiginose. Davanti a me c'è una piazza polverosa ma non riesco nemmeno a raggiungerla, perché un piccolo esercito di uomini, vocianti e chiassosi, mi circonda all'improvviso. Vogliono sapere dove intendo andare. Desidero forse arrivare a Siem Reap? In questo caso- mi dice uno di loro con una targhetta appuntata sulla camicia- c'è un autobus gratuito diretto alla stazione dei pullman. Altri tre, alle sue spalle, annuiscono e mi invitano ad ascoltarlo. Intanto i tassisti si avvicinano, a turno, e mi offrono corse per 45/50 dollari.
  CONTINUA ...»

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