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Ciclismo, il mondiale raccontato da chi l'ha già vinto in Italia: Vittorio Adorni

di Dario Ceccarelli

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Vittorio Adorni in azione a Lugano nell'ottobre del 1966 (Ap)

Tra i tanti '68, di quel vulcanico 1968, ci fu anche il '68 di Vittorio Adorni. Si vede che erano proprio tempi speciali perché il corridore di Parma, nel mondiale dei Tre Monti di Imola, fu protagonista di un'impresa davvero memorabile. Non solo perché lo vinse ponendo fine a un digiuno azzurro che durava da dieci anni (Baldini a Reims nel 1958).
Ma anche perché il suo successo, con quasi dieci minuti di vantaggio sul secondo (il belga Van Springel), assunse i contorni quasi leggendari di impresa d'altri tempi, di quando il ciclismo era più un'avventura che uno sport professionistico. E poi, per ricollegarci al presente, all'imminente mondiale che si corre il 28 settembre a Varese, Vittorio Adorni riuscì anche nell'impresa, finora mai replicata, di conquistare la maglia iridata davanti al pubblico italiano.

In nessun' altra occasione, infatti, un corridore azzurro è riuscito a imporsi in un mondiale svoltosi in Italia. Quasi a confermare il detto che "nessuno è profeta in patria", ogni volta è capitato qualcosa che ci ha messo i bastoni tra le ruote. Una caduta, una foratura, una distrazione. O semplicemente qualche avversario più forte. Unica eccezione, e che eccezione!, quella di Vittorio Adorni, raggiunta quando ben pochi avrebbero scommesso sul corridore parmense, ormai trentenne, e con alle spalle una stagione piuttosto deludente.
Tanto che molti commentatori, anche loro colti di sorpresa da un simile exploit, parlarono di abile depistaggio, di un Adorni furbo simulatore che si nascondeva mentre gli altri big se le suonavano di santa ragione.

Vittorio Adorni in una conferenza stampa a Liegi nell'aprile del 2004 (Afp)Allora, Vittorio, fu davvero tutto preparato?
«Beh, non esageriamo. Diciamo che mi sono applicato. E poichè mi sono preso una rivincita su quanti mi avevano dato per disperso... In realtà venivo solo da una stagione sfortunata. Alla vigilia della Milano-Sanremo mi ero rotto un tendine alla mano sinistra, che mi fece ritardare la preparazione. Mi ripresi al Giro d'Italia arrivando secondo dietro Merckx. Poi, in effetti, mi si notò poco. Ho corso in Francia e in Lussemburgo, ma senza espormi troppo. Ci voleva poco, comunque. Tutti erano presi dalla rivalità tra Merckx e Gimondi. Io ero più defilato...».

Insomma, hai fatto il furbo...
«Diciamo che ho giocato d'astuzia preparando tutto nei minimi particolari. In più, stavo molto bene. Non si vince un mondiale se le gambe non vanno. Meglio se poi sono aiutate dalla testa e anche da un pizzico di fortuna...».

E quindi?
«Quindi, secondo i miei piani, andai in fuga quasi subito, dopo tre giri. Tra gli altri c'erano Van Looy, Carletto e lo spagnolo Agostinho. A poco a poco siamo rimasti soli guadagnando un bel vantaggio. Dietro, Merckx era imbottigliato dal marcamento degli italiani e da Gimondi in particolare. Solo che se fossi arrivato con Van Looy, allo sprint mi avrebbe fregato. Così ho giocato il tutto per tutto, prendendo il volo a 90 chilometri dalla fine, sulla salita di Frassineto.
Qualcuno disse che ero pazzo. Ma cosa fa? Ma dove vuole andare questo Adorni? C'era Adriano De Zan, che in moto, mi si incollò di fianco facendo la telecronaca della fuga minuto per minuto. Continuava a farmi parlare e la giuria andò su tutte le furie perché era contro ogni regolamento. Ma la gente, tantissima, era felice. Anch'io, quando capii d'aver la vittoria in mano, nell'ultimo chilometro, mi rilassai cercando di memorizzare per sempre ogni più piccolo particolare. E ho fatto bene perché adesso, 40 anni dopo, riesco a rendermi conto di quanto sia stato bello. Tanti sacrifici, ma ne è valsa la pena...».

A proposito di sacrifici: qualcuno disse che, addirittura, per prepararti meglio, tu e tua moglie, Vitaliana, avete dormito in letti separati per nove mesi. È Vero?
«Voi giornalisti siete sempre chiacchieroni... Diciamo che ci tenevamo distanti di comune accordo. Era una specie di scommessa cominciata per gioco che non ci pesò più di tanto. In un certo senso fu una vittoria di coppia...».

Parliamo di Merckx. Tu eri suo compagno nella Faema, ma davvero era così forte?
«Sì, veramente un fuoriclasse. Con lui dividevo la camera e mi ero accorto quasi subito che poteva emergere. Ma non a quei livelli. Stando in Italia, imparò anche a correre dal punto di vista tattico. E allora fu la fine per tutti. Solo Gimondi in qualche modo riuscì a contenerlo o ad approfittare delle sue pause. Lui voleva sempre attaccare. Una volta, mentre stavamo guardando il Garibaldi, il libro con i percorsi della tappe del Giro d'Italia, mi dice: "Ecco, io attacco qui, dove c'è questa salita!". Lo guardo e gli dico: "Ma chi vuoi attaccare? Sei già maglia rosa, il secondo sono io, gli altri sono un sacco di minuti indietro. E tu vuoi attaccare? Ma mettiti un po' tranquillo, lascia qualcosa anche a chi sta dietro...". Eddy era così, non c'era niente da fare».

  CONTINUA ...»

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