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Hackett: «Sogno l'Nba, ma alla maglia azzurra non rinuncio»

di Dario Ricci

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Daniel Hackett - AP/Foto

«La maglia azzurra? Per me è un onore, un grande motivo d'orgoglio. La prossima estate abbiamo l'ultima possibilità di qualificarci per gli Europei 2009. Tutti noi, tutti i giocatori italiani devono essere consapevoli che si tratta di un'opportunità unica, vista anche la candidatura dell'Italia a ospitare i Mondiali 2014. Dobbiamo tornare grandi. Chiunque giocherà quelle partite decisive, in campo dovranno esserci 12 leoni». No. Non è Dino Meneghin a parlare così. Le parole che avete appena letto arrivano direttamente da Los Angeles, California. Lì studia e gioca a basket Daniel Hackett, 21 anni, playmaker di 196 centimetri della University of Southern California, l'unico italiano protagonista del campionato Ncaa, il torneo universitario della palla a spicchi. Studente del terzo anno, dopo aver trascorso tre anni alla high school alla St. John Bosco di Bellflower, ma nato a Forlimpopoli (vicino Forlì) da quel Rudy Hackett protagonista sui parquet italiani negli anni Settanta e Ottanta, Daniel – cresciuto poi a Pesaro - ci racconta la "sua" America, tra basket e libri, sogni Nba e crisi economica, l'attesa di tornare in nazionale e l'impegno di ogni giorno in uno dei campionati che più simboleggiano l'american way of sportlife.

Come sta andando questo inizio di stagione?
«Direi bene. Abbiamo un record di 6 vinte – 3 perse, e stiamo entrando in forma. L'inizio è stato pieno di alti e bassi, ma ora abbiamo preso il ritmo giusto, stiamo cominciando a capire il "sistema" di gioco di coach Tim Floyd. A gennaio poi scatta la Pacific Ten Conference».

L'obiettivo dichiarato è quello di prendere parte, anche quest'anno alla "March Madness", la "pazzia di Marzo", come è definito il torneo finale dell'Ncca, che seleziona le quattro finaliste del campionato, che si giocheranno poi il titolo alle Final Four...
«Chiaro che vogliamo prendere parte anche noi a quella che è vissuta come una grande festa nazionale, qui negli Stati Uniti. Le 64 partecipanti al torneo finale vengono selezionate da una commissione ad hoc, visto che sarebbe impossibile stilare una classifica precisa, tenendo conto del numero e del diverso livello delle squadre universitarie. Una volta stilato il tabellone finale, si procede a forza di scontri diretti fino alle Final Four. È una grande emozione. Negli ultimi due anni siamo riusciti a prendervi paete: la prima stagione siamo usciti contro North Carolina alle "Sweet Sixteen" (ai 16esimi di finale, ndr); lo scorso anno ci ha eliminato al primo turno Kansas State, dove giocava quel Michael Bearsley, ora protagonista nell'Nba a Miami».

Quest'anno le Final Four si giocheranno a Detroit, capitale dell'industria motoristica americana, la più colpita dalla crisi economica. Credi che dalla festa del basket universitario possa arrivare un po' di ottimismo in questo momento difficile?
«Spero di si. È un momento difficile, e dobbiamo aggrapparci a tutto per tirar fuori la forza per reagire. Le Final Four sono seguite da milioni di persone in tutti gli States e sono una buona occasione per far sentire il Paese più unito e solidale. E poi spero proprio che con l'arrivo del nuovo presidente Obama le cose inizino a migliorare. Sono fiducioso, ma non si può nascondere che qui, oggi, proprio la crisi è l'argomento principale: è sulla bocca di tutti, dalla gente comune ai media».

Torniamo sul parquet. L'America del college basketball sta impazzendo per Stephen Curry, playmaker di Davidson che quasi non arriva a 1 metro e 80, ma che sforna partite da 30 punti e 10 assist. Che te ne sembra? Può avere un futuro in Nba?
«Difficile dirlo. Di sicuro a livello di college sta facendo cose incredibili, e qui c'è una grande attenzione per lui. Ha un talento straordinario, ma i suoi limiti fisici potrebbero condizionarne un'eventuale carriera tra i professionisti. Secondo me dovrebbero tenerlo d'occhio anche gli scout europei, perché magari potrebbe sbarcare anche nel Vecchio Continente..».

L'Ncaa è sempre stato il metro di paragone per misurare differenze e similitudini tra il basket a stelle e strisce e quello europeo. Ci sono ancora delle differenze? Quali?
«La differenza maggiore è che tra i college il livello del gioco di squadra è molto meno omogeneo. Ogni sera giochi contro qualche grande talento individuale, ma ci sono squadre poco organizzate e altre che, invece, hanno un impianto di gioco molto sistematico, vicino a quello europeo. Sono queste, di solito, che vanno avanti fino al momento decisivo della stagione. Poi c'è ancora qualche differenza regolamentare (il tiro da 3 punti a 6 metri, i 45 secondi per l'azione d'attacco, ndr), ma non ha un grande peso».

  CONTINUA ...»

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