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IL GIORNO CHE AVREI VOLUTO VIVERE

Ho rubato il prezioso sorriso di Smith

di Fabrizio Galimberti

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Domenica 30 Agosto 2009

«Dear Smith...». L'incipit è meno florido di quanto ci si potrebbe aspettare da una lettera del Settecento (precisamente, del 12 aprile 1759). Ma forse la mancanza di formalità è dovuta al fatto che il mittente - David Hume - era di 12 anni più vecchio del 36enne destinatario - Adam Smith. Non so quando Smith la lesse - da Leicester Fields, a Londra, dove abitava Hume, a Glasgow, dove insegnava Smith, ci sono 550 chilometri, ma la posta impiegava una staffetta di carrozze e veniva consegnata due volte al giorno - ma mi sarebbe piaciuto vederlo quel giorno (il 14 aprile?) mentre gustava i complimenti al suo libro - la Theory of Moral Sentiments - e sorrideva dello stile ironico e scanzonato di Hume.

Il grande storico e filosofo, che aveva pubblicato a 26 anni un'opera (The Treatise of Human Nature) che i posteri avrebbero giudicato uno dei libri più importanti della filosofia occidentale - sembra quasi prendere in giro Smith in quella lettera deliziosa: «L'approvazione delle moltitudini? Niente può essere una più forte prova di falsità... Supponendo, quindi, che tu ti sia preparato al peggio con queste mie riflessioni, procedo a darti la melanconica notizia che il tuo libro è stato molto sfortunato: il pubblico sembra disposto ad applaudirlo senza freni». Successo di critica e di pubblico, dunque. E Hume riporta anche la contentezza dell'editore: «Millar esulta e fa vanto del fatto che due terzi dell'edizione sono già venduti. Vedi che "figlio della zolla" è quello, che valuta i libri solo per il profitto che gli portano...».

Duecentocinquanta anni dopo quella Theory of Moral Sentiments non ha perso smalto, e anzi ha acquistato nuovo lustro. Quanto avrebbe fatto bene quella lettura a quei politici «schiavi di qualche economista defunto» (come diceva Keynes) e a quei finanzieri che ci hanno messo nel pasticcio della Grande recessione! Avrebbero capito che il mercato non si aggiusta da solo, che non è solo algoritmi e modelli ma è anche in balia di tanti moral sentiments, che l'avidità e la paura possono oscurare razionalità e senso comune, che l'equità distributiva e la solidarietà sociale sono ingredienti essenziali di un sistema economico sostenibile.

Ma perché Adam Smith, il "padre dell'economia", discettava di "teoria dei sentimenti morali"? Il buon Adam non poteva scrivere di economia perché l'economia come scienza ancora non esisteva: l'ha inventata lui, e il primo libro di economia sarebbe stato, 17 anni dopo, la famosa Inchiesta sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni. Ma l'indagine economica era saldamente radicata, per un professore di Filosofia morale quale era Smith, nell'indagine sulle motivazioni dell'homo sapiens (l'homo oeconomicus sarebbe venuto più tardi). Il suo amico e mentore David Hume l'aveva già detto anni prima, nell'introduzione a The Treatise of Human Nature: «È evidente che tutte le scienze... anche la matematica... hanno relazione con la natura umana... e la scienza dell'uomo è il solo solido fondamento per le altre scienze».

Spesso Adam Smith, con la sua "mano invisibile" che regola il complicato orologio dei meccanismi economici, è stato considerato l'antesignano del laissez faire, dell'economia che si aggiusta da sola, del mercato che risolve tutti i problemi... Niente di più falso. È vero che Smith, nella famosa citazione dalla Ricchezza delle nazioni, scrive che «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio, che aspettiamo il nostro sostentamento, ma dalla considerazione del loro proprio interesse. Noi ci affidiamo non alla loro umanità ma al loro egoismo, e non gli parliamo mai dei nostri bisogni ma del loro vantaggio». La spada di Damocle della concorrenza (se il fornaio non fornisce un buon pane a un buon prezzo i clienti vanno altrove) assicura che il tornaconto individuale conduce al benessere collettivo. È come se un individuo - scrive ancora Smith - fosse «condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non faceva parte delle sue intenzioni...». Insomma, aveva ragione la volpe (nel Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry): «Le cose più importanti sono invisibili».

Ma questa mano invisibile si sarebbe subito anchilosata senza la "polverina magica" della concorrenza. Adam Smith non aveva nessuna illusione sul fatto che, lasciati a se stessi, macellai, birrai e fornai preferirebbero spendere meno possibile per la carne, la birra e il pane che ci vendono a caro prezzo: «Quelli che fanno lo stesso mestiere di rado si incontrano, foss'anche per divertirsi, ma se si trovano assieme la conversazione volge sempre in una cospirazione contro il pubblico o in qualche modo di alzare i prezzi». Il buon funzionamento dell'economia, insomma, è affidato a una mezzadria fra pubblico e privato: un privato che segue il piano inclinato della "mano invisibile" e un pubblico che deve proteggere il bene pregiato della concorrenza contro prevaricazioni e malversazioni.

  CONTINUA ...»

Domenica 30 Agosto 2009
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