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Questo articolo è stato pubblicato il 14 novembre 2012 alle ore 08:00.

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Non è infrequente sentir dire che, per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi, il patrimonio culturale del nostro Paese non significa più niente. Mi domando, prima di tutto, dove, in passato, si siano mai incontrate delle maggioranze o ampie minoranze di ragazzi per i quali il nostro patrimonio significava qualcosa.

Mi domando se la cultura umanistica di cui si piange la scomparsa, sia stata davvero capita e apprezzata e vissuta, soprattutto dagli intellettuali, o invece non sia stata usata per costruirsi un'identità, rapidamente sclerotizzatasi in nostalgia di un preciso momento storico. Perché fu solo per un decennio, o poco più, a cavallo fra gli anni 60 e 70, che un numero sufficientemente alto di ragazzi incluse la cultura nella propria identità collettiva.

Nel 1967 quasi un terzo degli studenti universitari frequentava le facoltà di lettere: si trattava comunque un'élite (solo un decimo dei giovani italiani continuava gli studi dopo il liceo) ma nettamente più ampia che in precedenza, in termini assoluti e percentuali; per la prima volta si poté legittimamente parlare di educazione di massa e direi anche di alta cultura di massa. Già nel 1977 gli iscritti a Lettere erano tornati il 20%, come vent'anni prima.

Non vorrei essere frainteso: mi sono anch'io formato in quel periodo e non ne ho dimenticato l'entusiasmo; sembrava che un patrimonio straordinario di cui fino ad allora avevano beneficiato pochi privilegiati potesse aprirsi a tutti e aiutarli a emanciparsi. Nobile intenzione, ma velleitaria. Pasolini intuì chiaramente la trasformazione in atto e l'equivoco che ne era alla base, e per questo andò controcorrente attaccando, in famose pagine eretiche e luterane, i capelloni, i nuovi media e l'industria culturale.

Non bisogna confondere la propria esperienza di umanisti professionali (quale sono anch'io) con quella della gente normale. Un insegnante, uno scrittore, un giornalista potevano allora coltivare e far fruttare la loro cultura, renderla dinamica attraverso una pratica quotidiana. Ma il torto più serio di tutta una categoria di intellettuali è dare per scontato che il passato contenga meraviglie senza spiegare davvero chi abbia l'autorità per definirle tali in assenza di un'unanimità di giudizio. Proporre, insomma, un modello di educazione permanente, infinita, il cui valore e significato non siano dunque deducibili dal loro obiettivo bensì dal processo in sé.

La cultura ha storicamente avuto scarsa diffusione. Ancora nel 1961 la percentuale di italiani in possesso di un diploma di scuola superiore era meno del 5% mentre l'84% aveva al massimo la licenza elementare. Non è affatto vero che oggi non ci siano più ragazzi in grado di ascoltare la storia, o che siano eccezioni.

La differenza è che negli anni 60-70 gli altri giovani, quelli che la storia non la sapevano ascoltare, erano una maggioranza silenziosa: viaggiare costava, la televisione era in bianco e nero e c'erano solo due canali; si poteva andare al cinema o allo stadio o ai concerti ma solo ogni tanto. Chi non leggeva non aveva poi tanto di cui parlare.

Eppure non possiamo permetterci né di non cambiare né di decretare la fine della cultura umanistica. Problemi globali quali l'esplosione demografica, la crescente diseguaglianza economica, la concentrazione dell'informazione, richiedono capacità di intervento e di riflessione che solo possono nascere da una contaminazione di competenza tecnologica, creatività e acutezza di pensiero. Nel corso su Cultural Agents che quest'autunno sto insegnando a Harvard insieme a Doris Sommer, abbiamo avuto ospiti come Joel Katz e Shahram Khoshbin, professori alla Medical School e direttori di un programma che insegna ai futuri dottori a riconoscere i sintomi attraverso un esercizio di osservazione e analisi di opere artistiche. O come Pier Luigi Sacco, il professore di economia della cultura alla IULM, che ha elaborato l'"Indice24" della cultura che verrà presentato giovedì a Roma. Il suo indice è uno degli elementi che potrebbero davvero aprire una via nuova al ripensamento della cultura, e sotto questo segno chiaro e importante ci ha parlato delle nuove prospettive aperte (e non chiuse) dai social network e dalla conseguente scomparsa di una netta contrapposizione fra chi produce contenuti e chi ne fruisce.

La crisi è anche un'opportunità. A patto che la cultura umanistica accetti la fine del proprio monopolio e la veda come una liberazione. Le era facile sentirsi essenziale finché non c'era alcun concorrente, se non a livello locale.

Oggi la cultura, così come l'estetica, si è sciolta nella società; non è più protetta e imprigionata in una torre, non necessariamente d'avorio ma chiaramente separata dalla foresta che la circonda. L'industria culturale e la sua disneyficazione sono minacce, ma non maggiori, ripeto, del vuoto che c'era prima, anzi. Finiamola con l'imputare ai giovani un disinteresse totale, non cerchiamo di capire dove stanno andando, con le loro musiche nuove, i loro libri nuovi, perché non siamo i loro giudici.

Umanesimo è partecipazione; è domandarsi e decidere dove sia bene andare, a qualunque età - verso quali nuovi libri, nuova musica, nuovi paradigmi. E provare ad andarci, giovani e adulti, inevitabilmente insieme.

Francesco Erspamer è professore di Lingue e letterature romanze e responsabile degli Italian Studies alla Harvard University

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