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La Jihad fa «scuola» in carcere

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Scenari

La Jihad fa «scuola» in carcere

  • –Donatella Stasio

«La prison c’est la putain meilleure école de la criminalité”: non hanno bisogno di traduzione le parole con cui nel 2008 Amedy Coulibaly, uno dei tre attentatori di Parigi, raccontò a France 2 la sua esperienza in carcere, dov’era finito con una condanna per rapina. E dove cominciarono la sua radicalizzazione e il suo reclutamento nella jihad grazie all’incontro con Djamel Beghal, figura dell’islam radicale. «Come si fa a imparare la giustizia con l’ingiustizia?» chiedeva provocatoriamente Coubaly. Certo non c’era bisogno della sua testimonianza per sapere che le prigioni sono formidabili scuole del crimine e di reclutamento di detenuti comuni ad opera di «veterani». Basti solo pensare che più di un secolo fa Filippo Turati ammoniva che «le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori». E se non bastasse, ecco anche un riscontro scientifico, documentato in una ricerca su “carcere e recidiva” senza precedenti in Italia e all’estero, effettuata (su impulso del Sole 24 ore) dagli economisti Daniele Terlizzese e Giovanni Mastrobuoni: quanto più il carcere è rispettoso della dignità e dei diritti fondamentali dei detenuti, tanto più è in grado di ridurre la loro recidiva; per ogni anno passato in un carcere “a misura dei diritti”, infatti, la recidiva si riduce di 10-15 punti percentuali (a partire da una media del 40 per cento circa). Gli attentati di Parigi e la storia degli attentatori rilanciano questo tema, anche per la tutela della sicurezza collettiva.

In Italia, su 54mila detenuti, 13mila sono musulmani ma solo 10 stanno dentro per terrorismo internazionale (articolo 270 bis del Codice penale). Numeri bassissimi rispetto alla Francia (67mila detenuti di cui 25mila musulmani: 152 radicalizzati e monitorati e di questi 22 in isolamento) dove dopo gli attentati si pensa a forme più rigide di isolamento carcerario. Anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha segnalato l’esigenza di «isolare» le cellule terroristiche per evitare che il carcere sia - come purtroppo è stato - un «incubatore» dell’estremismo. Ma non si sta pensando al 41 bis, cioè all’isolamento completo del detenuto con la sospensione di una serie di diritti per recidere i suoi legami con l’esterno, quanto piuttosto a un’intensificazione del regime di «Alta sicurezza, livello 2» dove attualmente scontano la pena i «radicalizzati»: un circuito a sé (che coincide con le carceri di Asti, Benevento, Macomer e Rossano), separato da quello dei detenuti «comuni», per evitare rischi di proselitismo, sebbene anche i detenuti comuni siano potenzialmente a rischio, tant’è che sono comunque sottoposti a un monitoraggio costante.

Questa particolare «attenzione» dell’Amministrazione penitenziaria risale al 2005, anche a seguito di indagini nelle carceri di Italia, Francia e Regno unito, e fa leva sulla formazione specifica del personale, sulla sistemazione dei detenuti estremisti, sulla pratica religiosa in prigione, sull’accesso e formazione degli imam, sulla preparazione dell’uscita dal carcere e soprattutto su una serie di indicatori della radicalizzazione.

Il rispetto dei diritti fondamentali del detenuto resta, tuttavia, una precondizione essenziale anche per contrastare il rischio di radicalizzazione. I risultati ottenuti da Terlizzese-Mastrobuoni - il paper «Rehabilitation and Recidivism: Evidence from an Open Prison» è pubblicato sul sito dell’Eief, Einaudi Institute For Economics And Finance, e Il Sole 24 ore ne ha dato conto il 29 maggio 2014 - documentano la straordinaria incidenza sulla recidiva del fatto di trovarsi in un ambiente non degradante e rispettoso dei propri diritti. «Per noi è uno studio fondamentale» dice Mauro Palma, nominato il 5 dicembre vice capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), anche se ancora non c’è il decreto di nomina, nonché presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale. «In Europa c’è grande attenzione - spiega - alla radicalizzazione come processo di trasformazione del responsabile di un reato in vittima: entri in carcere come responsabile di un reato ma poi ti percepisci come vittima perché i tuoi diritti non vengono rispettati. Per cui quando esci, esci come persona che ha subìto un’ingiustizia. E questo alimenta odio sociale». In sostanza, la radicalizzazione è anche «il risultato di un’esclusione sociale, di cui il carcere è l’ultimo anello della catena». Di qui la necessità di «diminuire la vittimizzazione» sia attraverso il rigoroso rispetto dei diritti fondamentali sia attraverso una riflessione del detenuto sulla ferita sociale che la sua condotta criminosa ha provocato. E su questo c’è molto da fare. «Per le persone che vengono da contesti sociali deprivati - prosegue - il carcere è un ulteriore elemento di deprivazione culturale, di ghettizzazione, di cui si nutre la radicalizzazione». Per molti anni Palma è stato presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e in questa veste ha girato moltissime carceri. «Il torto della Francia - osserva - è aver ghettizzato moltissimo, dividendo i detenuti per omogeneità culturali, mentre l’Italia ha scelto la via della disomogeneità» ricorrendo ai mediatori culturali». Riproporre in carcere «la banlieu parigina», il «quartiere ghetto», è un errore, perché «dà una falsa identità dell’appartenenza».

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