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Contro la crisi del penale serve un’etica pubblica

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L’ANALISI

Contro la crisi del penale serve un’etica pubblica

Si può immaginare una sopravvivenza accettabile della civiltà di un Paese a prescindere dall’accettabile sopravvivenza della sua giustizia penale? Se lo chiede il Procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani nella relazione integrale per l’anno giudiziario e la domanda, nella sua semplicità, è drammatica considerata la «profonda crisi in cui versa la giustizia penale» italiana ormai da anni. Una crisi «endemica» che però non sembra preoccupare la politica, altrimenti non si spiegherebbe perché, nonostante allarmi, segnalazioni ed evidenze oggettive, «si continui a dilazionare ogni intervento davvero incisivo e strutturale, accontentandosi di una mediocre, quotidiana soppravvivenza dello statu quo». La verità, osserva Ciani, è che la crisi della giustizia penale è frutto «anche di una crisi profonda della politica, delle formazioni sociali e delle classi dirigenti, che non sono state in grado di innalzare il livello della coscienza morale». Per cui sulla giustizia penale ricadono aspettative etiche e sociali, «il che costituisce una grave distorsione dell’assetto sociale».

Peccato che il Pg della Cassazione non abbia letto queste pagine alle autorità presenti nell’Aula magna. Le sue riflessioni mettono a nudo l’inadeguatezza dell’approccio riformistico alla giustizia penale e dell’analisi sottostante. Nel dubbio che vengano lette, vale la pena sintetizzarle.

Ciani prende le mosse da un recente lavoro del professor Massimo Donini, tra i maggiori studiosi di diritto penale, secondo cui «il diritto penale, in Italia, è diventato la nuova etica pubblica». Archiviate le ideologie, «le scelte etiche condivise sono solo quelle sancite dal diritto penale»: una condotta è censurabile soltanto se è reato, «mancando altrimenti un sistema di valori davvero eloquente e condiviso». Non esiste «una terra di mezzo» tra ciò che è reato e ciò che è lecito perché non è reato. Non esiste un’etica non giuridica. La morale pubblica si identifica con il perimetro dell’incriminazione penale. È come se «il sentire sociale fosse mediato dalla giustizia penale, secondo modalità sconosciute, in questi termini, nelle democrazie occidentali avanzate». Di qui la sua progressiva centralità: ci si attende molto di più da una sentenza che da una (nuova) legge e non si pensa che ci sono forme diverse e alternative di controllo e di sanzione.

Le aspettative vengono anche dal mondo economico. Ciani cita il documento di Confindustria del 14 dicembre 2014 sulla corruzione «zavorra per lo sviluppo», in cui si denunciano i ritardi dell’ordinamento sulla prevenzione e le carenze sulla repressione. Anche qui le aspettative riguardano risultati decisivi, come ipotizzare un aumento annuo del Pil dello 0,6% mediante l’intensificazione della repressione penale della corruzione (oltre che della prevenzione).

Ovvio che di fronte a tali e tante «aspettative messianiche» il risultato sia «deludente». Si pensi all’evasione fiscale e ai reati tributari considerati una delle principali e più diffuse cause di comportamento antisociale, di disvalore endemico per i danni all’economia. Eppure, a novembre 2014 i detenuti per questi reati - come segnalato dal premier Matteo Renzi - si contavano sulle dita di due mani. Si pensi al settore edilizio-urbanistico, alle vite umane che pagano il prezzo del mancato rispetto delle regole: i processi sono tantissimi (spesso a persone anziane che non hanno nulla da perdere) eppure le demolizioni, eseguite a distanza di anni, sono rarissime se confrontate al dilagare dell’abusivismo. Anche qui, «l’aleatorietà della risposta statale all’illegalità finisce per convicere che ciò che è illecito è, se non consentito, blandamente perseguito». «Il messaggio che ne consegue - osserva Ciani - è che evadere può convenire. Del resto non c’è da stupirsi se si pensa che nel sentire comune l’evasione fiscale è sostanzialmente avvertita come un furto ma le pene edittali per chi sottrae una bicicletta sulla pubblica via sono ben superiori a quelle di chi oggi si sottrae fraudolentemente al pagamento di imposte di ammontare da 50mila a 200mila euro. E analoghe considerazioni potrebbero farsi per la corruzione».

Se si avesse coscienza di questo scenario, l’approccio riformatore sarebbe diverso, mentre «il metodo è sempre uguale al passato: interventi episodici, legati a contingenze mediatiche e alle connesse emotività sociali piuttosto che a meditati interventi di struttura». A cominciare da una decisa (e non finta) depenalizzazione.

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