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Lo spettro di un conflitto da evitare

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Italia

Lo spettro di un conflitto da evitare

Archiviare il conflitto politica-giustizia per aprire un vero cantiere di riforme: più che un auspicio doveva essere una certezza in vista di una nuova stagione, per recuperare efficienza e fiducia nelle istituzioni. Purtroppo, le inaugurazioni dell'anno giudiziario hanno reso percepibile una tensione forse “diversamente conflittuale” ma non meno preoccupante perché rischia di fare solo danni. Continua pagina 7

A Bologna, l'uscita del ministro dell'Ambiente, Gianluca Galletti, dall'aula magna della Corte d'appello, in polemica con quanto aveva appena finito di dire il presidente della Corte, Giuliano Lucentini («Non siamo più additati come disturbati mentali o criminali, ma le cose sono rimaste sostanzialmente quelle di prima, è solo cambiato il metodo, mediaticamente più sottile e suggestivo») e a Torino quella del Pg Marcello Maddalena sulle ferie sono la rappresentazione plastica del cattivo stato di salute dei rapporti tra politica e giustizia, di cui si è avuta un'eco - con parole e toni diversi - a Roma, Milano, Torino e in altre sedi. La ricerca delle responsabilità su “chi ha cominciato prima” non porta lontano. Certo, tweet, battute e slogan del premier Renzi - «meno ferie, giustizia più rapida», «chi sbaglia, paga», solo per citarne alcuni - non hanno giovato, così come la minimizzazione, “a prescindere”, di ogni intervento legislativo, soprattutto se destinato a produrre effetti nel medio-lungo periodo. Né giova il rituale del dialogo tra sordi o di un confronto che privilegia la visibilità mediatica o si accontenta di qualche do ut des. Il problema non è recuperare un formale bon ton istituzionale né negare il diritto di critica, ma dimostrare che la nostra democrazia è capace di produrre gli anticorpi contro forme patologiche di conflittualità.

È una strada che passa anche per le riforme. Dalle cerimonie di questi giorni sono emerse alcune priorità. Tra queste, la modifica della prescrizione, tassello essenziale per uscire dalla crisi della giustizia penale e per rendere efficace la repressione della corruzione. Non un ennesimo “vorrei ma non posso”, qual è quello proposto dal governo, ma una riforma strutturale, in linea con gli ordinamenti occidentali, non certo sospettabili di essere poco democratici o poco garantisti. Se presupposto della prescrizione è l'inerzia dello Stato, quando ciò non si verifica non si possono azzerare - con la prescrizione - l'accertamento della responsabilità, le ragioni delle vittime, i costi sostenuti per il processo. Se si arriva a una sentenza di condanna in primo grado, la prescrizione deve bloccarsi. E se la sentenza definitiva arriva in tempi irragionevoli, possono scattare altri rimedi, come sanzioni disciplinari o sconti di pena per il condannato.

Su una politica penale non più carcerocentrica c'è unanime condivisione tra governo, magistrati e avvocati. Ma occorre coerenza. La legge delega 67/2013 ha introdotto le «pene non carcerarie» (reclusione al domicilio) irrogate direttamente dal giudice con la condanna, ma il governo ha fatto scadere i termini (il 17 gennaio) senza rendere operativa questa storica riforma. Lunedì di fronte alle Camere e nei giorni successivi, il guardasigilli Orlando ha ricordato che «per molto tempo» l'Italia, a differenza di altri Paesi Ue, «ha rinunciato a sviluppare un sistema di pene alternative, strada che ci ha condotti ad avere uno dei sistemi di esecuzione penale tra i più costosi del continente - circa 3 miliardi annui - e tra i meno efficaci se valutato in termini di recidiva. Gli interventi legislativi degli ultimi anni - ha aggiunto - hanno modificato questa impostazione. È essenziale proseguire». Non una parola sul “fatto” che il governo aveva appena abbandonato quella strada per «ragioni politiche» (Il Sole 24 Ore del 23/1), cioè per non esporsi agli attacchi di Lega e altri gruppi ideologicamente contrari alla decarcerizzazione. Si dice che la riforma è solo rinviata perché ci sarà una nuova legge delega. Ma al di là dei tempi più lunghi, non è così che la politica degli annunci può pensare di essere credibile.

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