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Juncker o Merkel, chi governa l'Europa?

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POLITICHE DIVERGENTI

Juncker o Merkel, chi governa l'Europa?

Nella riunione di giovedì dei capi di governo europei, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha aperto il confronto sul futuro dell'euro area con una nota analitica che rivede la storia della crisi e mette in questione l'impianto di governance degli ultimi anni. «C'è necessità di muoversi verso meccanismi concreti di coordinamento della politica economica, di convergenza e di solidarietà». Se non si procederà in questa direzione «l'euro area sarà intrappolata in uno scenario di bassa crescita, inflazione depressa e limitata capacità di creare posti di lavoro».

Come avevamo previsto, Juncker intende rompere l'inerzia di una gestione dell'euro area in cui la gerarchia finanziaria tra i Paesi ha dato forma a una gerarchia politica. L'euro area è divisa tra governi dei Paesi forti e dei Paesi deboli e in questo assetto la cancelliera Merkel ha assunto la leadership. Le elezioni greche, in cui la critica alla Germania ha catalizzato il consenso per Syriza, sono un sintomo di come i rapporti gerarchici siano un fattore di instabilità per l'euro area. Il diffondersi di sentimenti anti-europei in molti Paesi riflette una sofferenza politica che né Bruxelles né Berlino possono sottovalutare.

Il fatto che il governo greco stia accettando la cornice degli accordi esistenti è un potente monito anche per gli altri movimenti politici euro-scettici. Ma un'unione per necessità non significa un'unione per scelta, e ciò lascia in dubbio la tenuta politica dell'euro-area. In particolare se le condizioni economiche tra i Paesi continueranno a divergere o se mancheranno meccanismi di solidarietà.
La prospettiva di divergenza, virtuosa, viene proprio dalla Germania. Se Berlino manterrà il proposito di pareggiare il bilancio negli anni a venire, il debito pubblico tedesco scenderà molto rapidamente. Nel 2019 sarà già al 60% del Pil, come prevedono le organizzazioni internazionali. Ma se la politica di azzerare il deficit - facilitata dal surplus commerciale - venisse mantenuta anche nel decennio successivo, il debito tedesco arriverebbe rapidamente al 30%.

La notizia cattiva è che, con un debito tedesco molto basso, di eurobond non sentiremmo parlare più.
Senza titoli tedeschi ad alimentarli, gli euro-titoli sarebbero o pochi, o composti soprattutto da titoli italiani e francesi. Osservando il profilo di lungo termine del debito tedesco, appare finalmente chiara la ragione che rende Merkel così contraria a ogni forma di mutualizzazione del debito europeo. Ma senza eurobonds e con il paese leader quasi senza debiti, i tassi d'interesse continueranno a essere diversi nei vari paesi, rendendo asimmetrica la coesistenza economica dei paesi dell'euro area. In prospettiva saranno diversi anche i livelli di tassazione. Le ripercussioni sulla concorrenza all'interno del sistema europeo possono essere significative.

Un'alternativa agli eurobonds sarebbe l'adozione di un target di riduzione del debito pubblico al 60% non per singoli paesi, ma per l'euro area nel suo complesso. In tal caso, se la Germania proseguisse la politica di pareggio di bilancio portando il debito al 30% aprirebbe margini per una convergenza più graduale dei paesi indebitati. Ma anche se la nuova regola incentivasse Berlino a frenare il calo del proprio debito fermandolo al 60%, l'effetto sarebbe di stimolo per l'economia europea. Come si capisce le sorti del “duello” Juncker-Merkel sono decisive per tenere insieme paesi con politiche economiche e strutture industriali diverse.

Anche nel momento di maggior forza della leadership della cancelliera Merkel, Juncker gode di una legittimazione democratica dovuta al fatto di essere stato candidato alla Commissione dal partito popolare nella vittoriosa campagna elettorale per il Parlamento europeo - e può far leva sulla leggera inerzia verso l'integrazione rimasta latente anche nei provvedimenti recenti. Nell'unione bancaria sono stati accettati elementi di mutualizzazione dei contributi al fondo di risoluzione delle banche (benché rinviati di otto anni); il piano investimenti di Juncker, pur deludente, non discrimina per paese la destinazione dei fondi messi in comune ed è stato implementato attraverso legislazione ordinaria del Parlamento europeo; l'introduzione dei nuovi margini di flessibilità fiscale nel patto di stabilità è passata da una semplice comunicazione della Commissione nonostante l'opposizione tedesca e seppur accettando una autolimitazione della discrezionalità; infine l'operazione di allentamento quantitativo da parte della Bce prevede una parte (il 20%) di condivisione dei rischi derivanti dall'acquisto di titoli dell'euro area. Sono pochi segnali.

Lontani dall'impianto di risposta coordinata alla crisi che sarebbe necessaria. Ma su di essi grava l'ombra dei ritardi nelle riforme strutturali di alcuni paesi e della persistente divergenza “virtuosa” della Germania. La pressione sugli altri paesi – Italia prima di tutti – affinché aumentino la propria produttività resta un elemento positivo di non-coordinamento, ma il vantaggio competitivo di una Germania senza debiti, con minori tasse e con uno surplus di parte corrente che continua a crescere, potrebbe diventare economicamente e politicamente insostenibile se non si riuscisse a creare condizioni di uniformità fiscale, di modello sociale e di riforme strutturali in tutti i paesi. In altre parole: se non si procederà all'unione politica.

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