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I costi nascosti di Grexit

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l’analisi

I costi nascosti di Grexit

L'attenzione europea è in questi giorni tutta rivolta alla Grecia – comprensibilmente, data la criticità della posta in gioco.
Al di là di come andrà a finire questa ennesima puntata della crisi dell'euro, la concentrazione dell'attenzione su Atene ha costi immediati per tutti, sotto tre risvolti: intacca la fiducia, rafforza una lettura errata della crisi, e distrae dalle iniziative a favore della crescita.

A prima vista, può sembrare che la fiducia a livello europeo abbia tenuto bene di fronte alla fiammata greca. Certo, la volatilità di mercato è aumentata, ma non si è assistito a un tracollo. Le Borse hanno anzi toccato nuovi massimi, aggrappandosi a qualsiasi tenue accenno di possibile accordo sulla Grecia. Gli spread sui titoli di stato sono rimasti contenuti a livelli minimi. Ma è legittimo ritenere che il volano di una maggiore fiducia sarebbe oggi più forte senza le preoccupazioni che emanano da Atene. Vi è infatti un'inattesa confluenza di fattori positivi, con il contemporaneo calo del petrolio, il deprezzamento dell'euro, e l'avvento del quantitative easing della Bce. Una costellazione favorevole che viene, però, oscurata dalle ombre greche.
La nuvola più cupa rischia d'essere proprio quella che incombe sull'allentamento quantitativo della Banca centrale europea. È noto, infatti, che l'efficacia dello strumento in Europa è ridotto da vari fattori strutturali, ma si contava soprattutto sulla sua capacità di generare fiducia per sostenere la crescita.
Mentre il timore di contagio è certo minore di quello del 2010-11, l'incertezza – nota nemica dell'intraprendere e dell'investire – resta alta. Inoltre, le rassicurazioni sul minore rischio di contagio non convincono. L'unico nuovo baluardo è dato dalle Outright Monetary Transactions (Omt) della Bce, che sono riuscite a placare i mercati sin dal loro annuncio nell'estate 2012. Ma queste sono oggi inutilizzabili, relegate in un limbo legale tra Karlsruhe e Strasburgo, fuori dalla portata anche di un policymaker coraggioso quale Mario Draghi. Anche se l'incertezza legale fosse risolta in modo favorevole, il loro utilizzo richiederebbe l'accordo su un programma da parte di ogni Paese beneficiario. Un programma precauzionale, dallo sfortunato nome di «linea di credito a condizionalità rafforzata», che tutti i potenziali candidati (Irlanda, Portogallo, Spagna) hanno sinora rifiutato. Senza peraltro provocare alcun ripensamento delle sue modalità da parte dell'Esm o dei suoi governanti (gli stessi ministri dell'eurogruppo).

Un altro increscioso effetto del ritorno alla ribalta della Grecia è che rafforza una lettura errata della crisi dell'euro. Tale lettura vuole che la crisi sia in primo luogo dovuta alla irresponsabilità dei Paesi periferici, avvezzi a vivere oltre i propri mezzi, a spese del centro virtuoso. Rientrano in questa caricatura le pensioni-baby, le vacanze prolungate, l'impiego pubblico clientelare, la piaga dell'evasione fiscale, e via di seguito. Sotto questo profilo la Grecia è un “colpevole perfetto” agli occhi dell'elettore del Nord Europa.
Ma questa interpretazione della crisi è chiaramente riduttiva; non calza certo la realtà dell'Irlanda e della Spagna, e nemmeno molto bene quella del Portogallo. Resta però quella dominante nel “nocciolo duro” della zona euro, anche perché nutrita irresponsabilmente dai suoi leader politici. Ora riprende pieno vigore, rafforzando pregiudizi e lacerando ulteriormente il tessuto sociale e politico europeo.
Come osservato da Jean Pisani Ferry e altri, la lettura della crisi, e probabilmente anche la sua storia, sarebbe stata assai diversa se il primo Paese a chiedere aiuto fosse stato l'Irlanda piuttosto che la Grecia.
Infine, il ritorno alla ribalta della crisi greca sta togliendo l'attenzione da quello che resta veramente da fare: le agognate politiche a favore della crescita. Il piano d'investimenti Juncker non ha sinora attratto un solo euro di contributi dai Paesi membri, e il suo inizio operativo resta al di là del venire. Che fine ha fatto poi la “priorità assoluta” lanciata con fanfara al Consiglio informale di Milano del settembre 2014? La proposta era ottima, rappresentando un primo vero coordinamento delle riforme strutturali – nella fattispecie, una riduzione collettiva del cuneo fiscale in 11 Paesi della zona euro. Non se ne sente più parlare e l'iniziativa pare essere caduta nel dimenticatoio.

Il ritorno della crisi greca dovrebbe almeno indurre un'auto-riflessione critica. Il fatto desolante, invece, è che la zona euro resta priva di qualsiasi meccanismo di auto-valutazione da cui trarre lezioni dal passato, imparare dagli errori, e correggere il tiro. In questo, potrebbe guardare all'esempio del Fondo monetario internazionale, che ha procedure ben stabilite per passare in rassegna il proprio operato, criticarlo se del caso (come fece sulla Grecia nel giugno 2013), e adattare l'approccio. Senza tali procedure, la zona euro pare destinata a perseverare, diabolicamente, nell'errore. La crisi dell'euro continua ad essere, come sin dal primo giorno, una crisi di governance, e così sarà sin quando prevarrà l'approccio intergovernativo. Cioè, si può temere, sine die.

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