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Se i nostri «interessi» li tutelano gli altri

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Scenari

Se i nostri «interessi» li tutelano gli altri

Possiamo fare a meno della Libia? Proviamo, per una volta, a chiederci il contrario: la Libia può fare a meno di noi? L'Italia è il maggiore importatore di petrolio e da qualche tempo l'unico destinatario del gas libico attraverso il Greenstream: anche di questo devono preoccuparsi le fazioni libiche se vogliono contare su introiti sicuri per continuare a farsi la guerra. Per questo proteggono i terminali di Mellitah dell'Eni, che non ha abbandonato il Paese mentre i tecnici italiani lavorano alle piattaforme offshore. Ma la partita libica va ben oltre il gas e il petrolio di oggi.

Persino per i jihadisti affiliati al Califfato potrebbe risultare difficile fare in Libia quello che all'Isil è riuscito in Siria, mettendo sotto controllo i pozzi dell'Est ed esportando l'oro nero con i tubi clandestini in Turchia e Iraq. La Libia ricava da gas e petrolio il 90% delle entrate: senza queste risorse i capi delle milizie rischiano, come già accade a Tripoli, di non essere in grado di pagare le truppe, distribuire stipendi e importare la farina.
Se si interrompe l'export energetico, l'unica alternativa per chi sta sbranando le risorse del Paese è mettere le mani sulle riserve della Banca centrale o del Fondo per gli investimenti esteri. E questo è assolutamente da evitare, anche nei nostri interessi.

In realtà l'ex Libia da un pezzo sta morendo come nazione ed è entrata in una fase di agonia economica così preoccupante che si potrebbe determinare un crollo anche peggiore di quello cui stiamo assistendo, con una deriva molto simile alla Somalia dopo la caduta del dittatore Siad Barre, altro alleato dell'Italia. A Mogadiscio, è bene ricordarlo, si tentò una fallimentare missione sotto l'ombrello dell'Onu.
Quanto pesa la Libia in termini di sicurezza energetica? Con il Greenstream l'Italia copre l'8% del suo fabbisogno di gas (molto meno rispetto alle quote di Russia e Algeria) e importa circa 200mila barili di petrolio, anche se la produzione, per il conflitto, è crollata nelle ultime settimane a 180mila barili rispetto a 1,6 milioni dei tempi di Gheddafi quando l'oro nero del Raìs contava per il 25% dei consumi.

Nel breve periodo il deficit si può coprire, piuttosto bisognerà chiedersi cosa rappresenta la perdita della Libia sul piano strategico e a lungo termine, un Paese in cui l'Italia ha investito nei decenni enormi risorse umane, diplomatiche e finanziarie, quasi fino a perdere la faccia nell'assecondare le assurde richieste di Gheddafi che negli anni '70 pretendeva persino di licenziare il direttore di un giornale quando la Lafico entrò nel capitale Fiat. Così come sarà decisivo avere un giorno una politica energetica più diversificata sia sul versante dei fornitori che delle fonti per svincolarci, almeno in parte, dal soffocante nodo scorsoio di una geopolitica di cui siamo parte attiva ma non protagonisti.

Dobbiamo anche domandarci, nel momento in cui vogliamo giustamente difendere gli interessi italiani, quanto teniamo davvero alla Libia, nell'essenza uno stato-nazione derivato dalla nostra occupazione coloniale del 1911.
L'Italia aveva già dovuto rinunciare alla Libia come partner strategico quando la Francia e la Gran Bretagna, sventolando una risoluzione Onu sulla “no fly zone”, decisero di bombardare le truppe di Gheddafi a Bengasi con il benestare degli americani e della Lega Araba. Era il 19 marzo 2011 e nell'agosto precedente avevamo firmato con Tripoli un consistente trattato economico e di sicurezza, per di più accompagnato da una teatrale visita a Roma del dittatore libico. L'Italia allora fu costretta dalla realpolitik a intervenire contro il Colonnello: restando fuori c'era il rischio di perdere interessi consolidati nell'ex colonia dove alle imprese italiane il regime aveva assicurato appalti miliardari.

In Libia e in Siria per la guerra, in Iran e in Russia per le sanzioni, abbiamo lasciato qualche consistente punto di Pil in mancate esportazioni e commesse: il conto salato delle guerre nel cortile di casa le nostre imprese lo stanno pagando da un pezzo. A questo costo economico si aggiunge quello umano e della sicurezza, le migrazioni fuori controllo, le morti in mare, la destabilizzazione alle porte di casa e ora la nuova paura del Califfato.
Adesso la Francia, facendo di nuovo appello all'Onu, si schiera con l'Egitto, appoggiato da Mosca, nella guerra in Cirenaica dove la Total ha i maggiori investimenti energetici e un suo campo petrolifero è stato attaccato qualche giorno fa da gruppi jihadisti. Henry Kissinger ripeteva che le nazioni non hanno amici o nemici permanenti ma soltanto interessi. I nostri, con una spartizione in sfere di influenza, li stanno decidendo i nostri “amici”: dell'ex Libia, se va bene, ci resterà la Tripolitania.

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