PARIGI - «La Repubblica sarà più forte dell’odio, la Repubblica vi difenderà con tutte le sue forze», ha detto il presidente francese François Hollande ieri mattina durante la visita al cimitero ebraico di Sarre-Union, in Alsazia, dove una banda di cinque ragazzini – tra i 15 e i 17 anni – ha profanato 250 tombe. «La giustizia – ha aggiunto Hollande – dirà se si è trattato di incoscienza, di ignoranza o di intolleranza. Ma il danno, il male è già stato fatto». E non è rimediabile, viene istintivo pensare con parole pur non pronunciate.
Come già dopo la strage all’ipermercato kasher della Porte de Vincennes, a Parigi, il presidente e il premier Manuel Valls scendono in campo per fronteggiare il crescente antisemitismo che si sta sviluppando in alcune fasce sociali della popolazione. L’ostilità, ma anche l’indifferenza, altrettanto pericolosa. «Non c’è abbastanza indignazione», di fronte a questi episodi, ha più volte ripetuto Valls.
A fine mese, su richiesta del presidente che ne ha fatto una «battaglia nazionale», il Governo presenterà un vero e proprio piano «contro il razzismo e l’antisemitismo».
Ma le parole, e persino le misure, non sembrano più sufficienti ad arginare il fenomeno – comune ormai a molti Paesi europei ma evidente soprattutto in Francia, dove c’è, di gran lunga, la maggior comunità ebraica, 550mila persone – e a rassicurare i tanti che non si sentono più a casa loro, che iniziano ad aver paura, che si chiedono se non sia davvero il caso di fare il grande passo e partire in Israele. Raccogliendo l’insistente appello del premier israeliano Benjamin Netanyahu, rivolto in particolare agli ebrei d’Europa e supportato da un aumento del budget (una quarantina di milioni) destinato ad aiutare il “rientro”.
I numeri dell’alya sono già impressionanti. L’anno scorso sono stati 26.500 gli immigrati ebrei in Israele, con un aumento del 32 per cento. E per la prima volta è stata la Francia, con oltre 7mila partenze (rispetto alle 3.300 del 2013 e alle 1.900 del 2012), a fornire il contingente più forte, davanti alla Russia (4.800) e agli Stati Uniti (3.900).
Un andamento che dovrebbe confermarsi quest’anno. Il ministro israeliano dell’Immigrazione e dell’integrazione, Sofa Landver, prevede 30mila arrivi, un terzo dei quali dalla Francia. Nel 2014 sono stati in 50mila a rivolgersi per informazioni all'Agenzia ebraica di Parigi. Che ha portato il numero di incontri da uno al mese, un anno fa, a due al giorno all'inizio del 2015.
Le testimonianze raccolte dai giornali sono ancora più scioccanti delle cifre. «Abbiamo l’impressione di dover camminare nascondendoci, strisciando lungo i muri», dice Franck, che sta pensando di partire. Jérome, che ha ormai deciso e sta preparando il trasloco, e Carine, che se n’è già andata, spiegano che la situazione è cambiata una decina di anni fa. Certo, attentati ce n’erano già stati (basti ricordare quello di alcuni terroristi palestinesi a Orly nel 1978, la bomba davanti alla sinagoga della rue Copernic nell’80, la strage del ristorante Goldenberg nell’82), ma gli autori venivano dall’esterno del Paese e facevano parte di organizzazioni. Certo, profanazioni di cimiteri ebraici ve ne sono state molte (una per tutte quella di Carpentras, nel 1990, seguita da una marcia silenziosa che ha visto sfilare per la prima volta un presidente, François Mitterrand), ma si trattava di episodi isolati, circoscritti, puntuali.
Mentre ora c’è una sensazione di ostilità e insicurezza, di malessere, che risale appunto ai primi anni 2000 e nei numerosi racconti viene ricondotta d’un lato al processo di identificazione comunitaria da parte della nuova generazione di immigrati (o figli, o nipoti di immigrati) musulmani - con quel che ne segue in termini di radicalizzazione culturale, sociale, religiosa – e dall’altro alla diffusione dei social network, che veicolano messaggi di odio razziale.
La maggioranza dell’opinione pubblica si è soffermata su alcuni fatti clamorosi: Ilan Halimi, il ragazzo torturato e ucciso nel 2006 con l’obiettivo di chiedere un riscatto alla famiglia, ritenuta ricca per forza in quanto ebrea; gli attacchi di Mohamed Merah a Tolosa nel 2012; la coppia brutalmente aggredita a Creteil, tre mesi fa, ancora una volta perché ebrea e quindi ricca; l’attentato al museo ebraico di Bruxelles; fino ai fratelli Koauchi e a Coulibaly.
Ma gli ebrei parlano anche, soprattutto, d’altro. Di piccoli, e terribili, fatti quotidiani. Dei ragazzini che in un supermercato fanno volar via la kippah di un bambino. Della vicina di casa che chiede di togliere le mezuzah dalla porta. Delle prese in giro nei confronti di chi, alla mensa scolastica, mangia kasher.
Nei giorni scorsi un reporter del sito israeliano Nrg è andato in giro per Parigi con una kippah e una telecamera nascosta. In alcuni quartieri, a forte presenza musulmana, ha ricevuto insulti e sputi. Con un insulto più forte di tutti. «Ebreo». L’anno scorso sono stati segnalati 851 “atti antisemiti”, il 130% in più rispetto al 2013. E l’ultimo rapporto del commissariato per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa, presentato ieri, denuncia “l’arretramento del clima di tolleranza” che ancora pochi anni fa caratterizzava la Francia.
Stando a un recente sondaggio, il 20% dei francesi pensa che gli ebrei abbiano troppo potere in campo economico, dato che sale al 43% tra i musulmani e al 74% tra i musulmani praticanti. Il quotidiano israeliano Yedioth Ahronot forse esagera quando scrive di “arabizzazione dell’Europa”, ma non vanno sottovalutate le parole del presidente del Crif (il consiglio ebraico di Francia), Roger Cukierman, quando denuncia il riemergere della figura dell’ebreo capro espiatorio degli anni 30 e segnala l’aumento del numero di bambini ebrei che vengono ritirati dalle scuole “laiche e repubblicane” per essere trasferiti in quelle confessionali.
Proprio quelle scuole “laiche e repubblicane” che con l’insegnamento del rispetto reciproco dovrebbero costituire invece il primo argine, forse l’unico davvero possibile, all’emergere dell’intolleranza.
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