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I limiti della sovranità

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l’analisi

I limiti della sovranità

La sovranità democratica nazionale non è la vittima del negoziato tra Atene e Bruxelles. La dura alternativa imposta al governo greco – e in futuro potenzialmente ad altri paesi - tra uscire dall'euro o tradire le promesse elettorali, ha solo reso espliciti i limiti della sovranità di un paese ad alto debito.

Un paese la cui retorica elettorale proiettava sull'Europa il ruolo di antagonista anziché di partner. Tuttavia un negoziato tanto acrimonioso, che poco si è occupato di obiettivi condivisi di crescita e molto di rapporti di forza, resta politicamente debole e getta una grave ombra sul futuro rispetto di qualsiasi accordo.

Alexis Tsipras ha vinto le elezioni sulla promessa unilaterale di revisione degli accordi in atto con le istituzioni europee. Nel pieno del duro scontro con i partner, il primo ministro greco ha ribadito che il suo governo terrà fede alle promesse elettorali. Già in queste ore, il Parlamento di Atene sta votando misure che derogano agli impegni presi. Il contrasto con le condizioni poste dai partner, attraverso l'Eurogruppo, è enorme: Atene era chiamata a non revocare le riforme; a concordare ogni nuova misura senza ampliare il deficit; ad assicurare che ripagherà i debiti; a cooperare con la Troika (anche dovesse cambiare nome, Trinità?); e a portare a compimento il programma concordato.

In molti casi durante la crisi, le democrazie nazionali hanno dovuto fare i conti con le compatibilità europee: referendum (in Irlanda e in Grecia), elezioni (in Spagna e in Italia), sentenze delle corti costituzionali (in Germania e in Portogallo) sono stati oggetto di un tiro alla fune con Bruxelles. L'Italia lo sa meglio di altri: nell'ottobre 2011 arrivarono a Roma una ventina di tecnici della Commissione europea e della Bce. Al successivo vertice di Cannes, il governo accettò l'invio degli esperti del Fondo monetario. Anche noi, come oggi i greci, abbiamo taciuto il nome della “Troika”. Ma l'Italia ha poi reagito, bene o male, con le proprie forze e con tre anni di severi sacrifici e graduali riforme. La fine della sovranità è un alibi: nei paesi dell'euro, il 50% del Pil resta intermediato dagli stati; i divari nei livelli di tassazione sono molto ampi. Ci sono i margini fiscali per realizzare politiche nazionali che assecondino le preferenze dei cittadini. Il vero discrimine è tra politiche – nazionali ed europee - favorevoli alla crescita e politiche, in tal senso, inefficienti a fronte di debiti eccessivi.

Tra minacce e inesperienza, la strategia negoziale di Atene aveva dei limiti fondamentali. Nella trattativa Atene ha utilizzato due leve: la prima era il punto di principio di agire in base a un mandato sancito da elezioni democratiche; la seconda, che l'uscita della Grecia dall'unione monetaria avrebbero aperto la strada alla reversibilità dell'euro per altri paesi. Una posizione negoziale basata su questi due cardini era impervia: il 70% dei greci si dichiara contrario a lasciare l'euro. Il mandato democratico non giustificava quindi l'unica opzione che rendeva temibile la posizione negoziale greca. Il potenziale della minaccia inoltre era ridotto dalla stabilità dell'euro-area assicurata dalla Bce e dall'adesione ai programmi di aggiustamento da parte di paesi contrari a deroghe per altri stati. Tagliare un debito su cui Atene paga pochi oneri, infine, avrebbe comportato pochi benefici ai greci, ma elevati e immediati costi politici per gli altri governi.

Ma anche se la maggioranza dei greci preferisse abbandonare l'euro piuttosto che accettare accordi che, comprensibilmente, ritiene ingiusti e squilibrati, si potrebbe parlare di una battaglia per la difesa della democrazia dalla tecnocrazia europea? In fondo la posizione di Atene si fonda sulla promessa elettorale di far pagare cittadini di altri paesi. La sostanza democratica di una simile promessa, effettuata unilateralmente senza consultare gli interlocutori che ne pagherebbero l'onere, è dubbia.

Il negoziato ha messo in luce però il punto nodale di un'unione monetaria in cui alcuni requisiti democratici sono visibili nel quadro nazionale e sfuggenti in quello europeo. L'Eurogruppo è una sede in cui si dovrebbero comporre interessi di governi, tutti legittimati da elezioni democratiche, a cui però non è chiesto individualmente di perseguire l'interesse comune, se non forse quello del minor danno. L'interesse comune poteva essere rappresentato invece dalla Commissione europea, che però non è un interlocutore negoziale. La contraddizione è tale che nel vertice di lunedì un documento attribuito alla Commissione è stato diffuso maliziosamente da Atene come se fosse un pre-accordo, ma è stato subito accantonato dopo la diffusione di un documento molto più severo espresso dall'Eurogruppo.

La vaghezza del documento della Commissione, privo delle condizioni indispensabili per il consenso degli altri governi, ha rafforzato l'intransigenza dell'Eurogruppo e, malauguratamente, ha fatto sembrare inefficace la mediazione comunitaria rispetto a quella basata su rapporti di potere tra governi forti e governi deboli. Il braccio di ferro sotterraneo tra Bruxelles e Berlino ha visto quindi Merkel prevalere, nonostante la maggiore legittimazione europea della nuova Commissione.

La questione della legittimità d'altronde è resa complessa dal fatto che l'accordo è sottoposto ad approvazione di vari Parlamenti, a cominciare da quello finlandese che ha programmato due sedute straordinarie per il 9 e 14 marzo. Inoltre, la richiesta greca di modificare la sostanza degli accordi in atto avrebbe richiesto una nuova base giuridica da sottoporre anche al parlamento tedesco. La strategia di Tsipras avrebbe quindi dovuto tener conto dei diritti di tutti.

Atene ha risposto chiedendo un accordo ponte che desse al nuovo governo l'ampio respiro – 4-6 mesi - per formulare con i tempi della politica un proprio piano di riforme che evidentemente non era stato dettagliato durante la campagna elettorale. Da un lato l'impreparazione di Atene ha svuotato la sostanza del mandato elettorale che vantava. Dall'altro, l'intento unilaterale di cambiare le regole ha riportato in primo piano il tema della sfiducia che proprio la falsificazione dei bilanci greci aveva catapultato al centro della crisi. Come se non bastasse, una trattativa intergovernativa è di per sé poco trasparente. Documenti riservati sono stati fatti circolare da Atene per influenzare la trattativa, mentre le istituzioni europee informavano i media con propri background, e i governi offrivano briefing mirati alle opinioni pubbliche interne. Berlino infine ha polarizzato la trattativa con dichiarazioni unilaterali. Una cacofonia che ha gravitato perfino su zone orarie diverse tra Dublino e Atene.

Il negoziato rappresenta certamente un monito per i partiti euro-critici che aspirano a governare e per i paesi non soggetti a programma che in futuro faticheranno a rispettare l'ortodossia delle riforme. Ma sottolinea soprattutto il vuoto di vera unione politica europea. Questo vuoto offre così tanti alibi all'opportunismo nazionale da rendere del tutto ingannevole la denuncia della fine della sovranità democratica.

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