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Il dividendo europeo e la serietà necessaria

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il lavoro da fare

Il dividendo europeo e la serietà necessaria

A leggere i titoli, la giornata di ieri è da incorniciare: spread sotto i 100 punti, ai minimi dal 2010, e Pil in segno positivo con la fine della recessione. Un'abbinata da sogno. Ma è già tempo di mettere lo spumante in frigo?

Per un Paese che ha conosciuto l'angoscia dello spread a quota 575, con i tassi a breve che erano arrivati a superare quelli a lungo toccando un iperbolico 8%, verrebbe da dire di sì. Così come il ritorno alla crescita, seppur minima, dopo 14 trimestri di Pil con segno negativo o zero, è sicuramente un segnale da accogliere con fiducia. Ma stappare bottiglie sarebbe decisamente fuori luogo. Perché il cammino verso il rilancio è tutto da percorrere, tra riforme da approvare o attuare e investimenti da fare.

Innanzitutto sui tassi non è tutto oro quel che luccica. I tassi reali a lungo termine continuano in molti paesi dell'eurozona, in considerazione dell'andamento dei prezzi e della stagnazione dell'economia, ad essere alti. Se non si tornerà presto a un livello di inflazione accettabile, la spinta dei bassi tassi nominali sui consumi e sugli investimenti, come stiamo verificando in questi mesi, resterà modesta.

Servirebbe poi evitare le strumentalizzazioni politiche: spread ridotti e refoli di ripresa sono prevalentemente il dividendo di azioni e dinamiche internazionali (dal calo del prezzo del petrolio alla ripresa americana) e soprattutto europee. L'annuncio e la messa in atto del quantitative easing da parte della Bce sono la causa primaria dei dati positivi che si vanno registrando con sempre più frequenza. Secondo uno studio appena presentato dal CsC l'ampiezza del Qe «è tale da diminuire i tassi reali sui titoli a lungo termine di 109 punti base». Inoltre l'acquisto diretto dei titoli da parte della Bce «produce un indebolimento del cambio dell'euro sul dollaro dell'11,4%». Effetti questi in parte già avvenuti, con una conseguente spinta sul Pil italiano del combinato disposto dei tassi bassi e dell'euro meno forte che viene stimata allo 0,8% nel 2015 e all'1% nel 2016.

Calcolando l'effetto del QE sul livello dei tassi, nell'ipotesi di uno spread stabilmente sotto i 100 punti nel 2015, la Corte dei Conti ha poi stimato che il servizio del debito calerebbe per le casse dello Stato a 67,9 miliardi. Un risparmio di oltre 10 miliardi rispetto al livello di 78,2 miliardi pagato solo due anni fa (nel 2014 erano 76,6 miliardi), risorse che potrebbero essere utilmente impiegate per la riduzione delle tasse (o per lo meno per evitare di aumentarle nel corso di quest'anno) o per dare una spinta agli investimenti.

Chi nel Paese è convinto, o si lascia convincere, che i mali dell'Italia derivino sostanzialmente dall'Europa, dall'euro e dalla Bce, farebbe bene a tenere nel dovuto conto questi dati. La realtà è che se nelle tabelle macroeconomiche (e si spera presto nei portafogli delle famiglie e nei conti delle imprese) l'Italia torna a vedere un po' di luce, il merito è in gran parte proprio dell'ombrello e delle risorse che in questi mesi la Bce sta mettendo a disposizione.

Questo non vuol dire sottovalutare quanto di buono è stato fatto in Italia. Il Jobs Act magari non porterà quel boom di posti di lavoro che qualche ministro si è sbilanciato a prevedere, ma è una riforma vera, resa operativa in tempi rapidi, senza marce indietro nell'ultimo miglio dei decreti attuativi. Tra spinta riformista e stabilità politica, il governo Renzi ha sicuramente dato il suo contributo a un primo positivo cambio di clima in Europa. Ma guai a sedersi. E guai soprattutto a dimenticare riforme forse anche più importanti del Jobs Act, che sono state in questi mesi regolarmente rinviate.

Al primo punto, in questo senso, i decreti attuativi della riforma fiscale che, a meno di sorprese, non andranno neppure martedì prossimo in consiglio dei ministri, totalizzando il quarto rinvio consecutivo. Un piccolo record, a un anno ormai dall'approvazione della delega. E che dire della tanto sbandierata riduzione delle società partecipate dallo Stato e dagli Enti locali? Dopo il nulla di fatto nello “sblocca Italia” e nella legge di stabilità, ora il governo ha destinato il taglio delle partecipate alla riforma della Pubblica amministrazione. Peccato che anche questa sia rimasta incagliata in Parlamento.
Le incognite poi sono tante. Con i tagli di spesa da fare, le clausole di salvaguardia che rischiano di far scattare aumenti fiscali fino a 16 miliardi nei prossimi due anni, gli ammortizzatori sociali straordinari ancora da coprire, il bonus da 80 euro che – come è stato osservato dai magistrati contabili - rischia di essere vanificato dai nuovi aumenti di tasse.

Tutte buone ragioni per lasciar perdere lo spumante e lavorare con serietà, ciascuno per la propria parte, a non vanificare le opportunità di ripresa che si vanno prospettando. Di questa serietà certo non fanno parte le baruffe interne ai partiti e alle coalizioni, in quella che si annuncia come l'ennesima campagna elettorale italiana fatta apposta per allontanare gli elettori dalle urne. La fiducia è un germoglio fragile e necessario. Se non lo si farà crescere la ripresa resterà un'illusione numerica, un'araba fenice di cui si potrà dire con Metastasio «che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa».

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