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Il coraggio di chi ha remato contro

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EUROPA, BCE E RIGORE

Il coraggio di chi ha remato contro

A volte verrebbe da pensare che la realtà economica si diverta a smentire il buon fondamento dei tanti “nein” della Germania, a mettere in croce le troppe verità assolute della sua dottrina europea premiando invece chi prova a contestarli, smussarli, a renderli un po’ più ragionevoli.
L’ostruzionismo tedesco al quantitative easing della Bce di Mario Draghi è stato quasi leggendario. Come l’ostinazione sul rigore assoluto e senza paracadute per i Paesi della fascia periferica dell’euro, nella ferma convinzione che la crescita economica non potesse essere che il premio al recupero delle virtù economiche di un Paese, quindi un’impresa tutta nazionale prima di diventare, forse chissà, anche europea.
I risultati sono noti: recessione, disoccupati record, crollo degli investimenti, deflazione, debiti in aumento invece che in calo, nazionalismi e euroscetticismo dilaganti, partiti anti-sistema più o meno dovunque all’arrembaggio. Un disastro. Che non ha fatto bene nemmeno alla Germania, visto che la sua crescita si trascina lenta e poco dinamica rispetto ai concorrenti globali con cui ambisce misurarsi.

Se oggi finalmente, dopo sette anni bui e deprimenti, l’Europa comincia a dare segnali di svolta, anche psicologica, lo si deve proprio a chi ha avuto e ha il coraggio di remare controcorrente, contro il pensiero unico dominante. Con buona pace del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, e alleati.
Draghi l’aveva annunciato la settimana scorsa a Bruxelles, davanti all’Europarlamento quasi vuoto, che il Qe cominciava a fare e bene la sua parte, che il paziente rispondeva alla cura e l’economia reale gli dava ragione. Ieri a Nicosia ne ha fornito le nuove coordinate: accelerazione della crescita all’1,5% quest’anno (rispetto allo 0,9% originariamente previsto), poi all’1,9% e al 2,1% nel 2016 e 2017. Inflazione zero quest’anno, per poi salire all’1,5% e all’1,8%, cioè finalmente a ridosso dell’obiettivo intorno al 2% della Bce. Cioè finalmente fuori dal rischio di deflazione.
Per questo, annunciando il maxi intervento della Bce da 60 miliardi al mese per l’acquisto di titoli sovrani, Draghi ieri ha specificato che l’operazione durerà fino al settembre 2016 «e oltre, se necessario». Per questo, contestualmente, ha però anche ribadito, e per l’ennesima volta, l’urgenza delle riforme strutturali e della modernizzazione del sistema-Europa insieme al rispetto del patto di stabilità e alla necessità di risanare i conti pubblici. Invocando il sostegno essenziale dei governi alla politica monetaria espansiva. Senza, la crescita risulterebbe drogata e alla lunga non sostenibile.

Che la politica della Bce funziona lo dice del resto anche il termometro sensibilissimo degli spread, che non cessano di diminuire tra Paesi periferici come Italia, Spagna e Portogallo e Paesi centrali quali Germania, Olanda, Finlandia e Francia. Segno di un lento ritorno alla convergenza dentro l’eurozona lacerata da anni di crisi. Segno che i costi del servizio del debito si riducono e offrono una provvidenziale boccata di ossigeno alla crescita economica. Segno infine che, se solo si recuperasse un po’di fiducia tra gli europei e tra le loro banche, la ricca liquidità in circolo potrebbe non solo irrorare la ripresa e sconfiggere la deflazione ma anche ricompattare un mercato finanziario spaccato dalla lunga crisi.
Certo, se in Europa finalmente qualcosa si muove, lo si deve al Qe ma anche al mini-euro e al precipitoso calo dei prezzi del petrolio: a una congiunzione positiva di eventi fatti apposta per stimolare sviluppo. Da qui a cantare vittoria però ce ne corre.
Salvo sorprese, la crescita dell’eurozona nel decennio si attesterà intorno all'1,3% medio, contro il doppio degli Stati Uniti e il quintuplo della Cina. Quando le tre maggiori economie dell’euro, Germania, Francia e Italia, insieme fanno una crescita media dell’1% circa, si può esaltare finché si vuole il dinamismo ritrovato dei Paesi periferici risanati come Irlanda, Spagna e Portogallo ma il loro modesto peso relativo non riesce a cambiare il quadro di insieme.

Per questo le riforme nei tre Grandi oggi sono essenziali e urgenti, come sarebbe auspicabile che Berlino mettesse in circolo un po’ della sua montagna di surplus finanziari.
I dividendi delle riforme fatte e da fare in Italia e Francia prima o poi arriveranno, come quelli delle riforme che probabilmente presto anche la Germania sarà chiamata a mettere in cantiere. I miracoli del piano Juncker con investimenti per 315 miliardi in tre anni, poi, sono tutti da verificare. Solo la flessibilità nell’applicazione delle regole del patto di stabilità per chi le rispetta e/o accelera le riforme rappresenta per ora un altro stimolo concreto e immediato alla crescita.
Senza il realismo pragmatico della Bce di Draghi, dunque, l’economia europea oggi resterebbe al palo. Tutti i governi dell’euro dovrebbero dargliene atto ma tutti senza dimenticare di fare la propria parte e al più presto. Perché gli incerti dell’economia globale, e della Grecia, sono tanti. E non è detto che l’attuale quadro favorevole duri all’infinito.

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