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Il credito d'imposta che serve alla ricerca

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POLITICHE DI CRESCITA

Il credito d'imposta che serve alla ricerca

In Europa e in Italia non è facile superare valutazioni approssimative sul nostro sistema manifatturiero e industriale. L'opinione pubblica è consapevole che ci sono delle eccellenze espresse da marchi famosi. È invece meno (o poco) diffusa la conoscenza della forza di tutto il manifatturiero, delle ragioni di successo e dei punti di debolezza che richiedono politiche di intervento. Persino osservatori qualificati non sempre dimostrano adeguata conoscenza tant'è che di recente la Commissione europea ha affermato che la nostra industria si caratterizza prevalentemente per produzioni a contenuto tecnologico medio-basso soggette alla concorrenza di costi e prezzi dei Paesi emergenti. Si può invece dimostrare che non è così anche se ci sono problemi da risolvere con politiche per spingere la ricerca e l'innovazione.

Le diffidenze per le fabbriche.
Il successo del made in Italy, riferito inizialmente alla moda e al design, si è manifestato dapprima marcatamente all'estero fruendo anche del riflesso emotivo delle bellezze artistiche e naturalistiche italiane. L'opinione pubblica nazionale (ma anche estera) ha impiegato invece parecchio tempo prima di rendersi conto della creatività italiana in quella vasta gamma di settori e prodotti manifatturieri della meccanica, della chimica, della farmaceutica, dell'impiantistica manifestando invece una maggiore (e comprensibile) consapevolezza sui prodotti per la casa e per l'alimentazione. Due diffidenze, pur molto diverse tra loro, hanno però continuato a pesare sulla manifattura italiana.

La prima è stata la vecchia diffidenza verso la “fabbrica” quale luogo di fatica logorante dapprima e di inquinamento poi. Così era davvero in passato per non poche grandi aziende (spesso sostenute dalla Stato) che sono declinate per inefficienza e per incapacità di adeguarsi agli standard europei. A loro sono subentrate le Pmi e i distretti dove la spinta di tanti nuovi imprenditori, la qualità del lavoro e dei prodotti, hanno integrato imprese e comunità territoriali, imprenditori e lavoratori, in sistemi straordinari anche qualitativamente.

Eppure la storia passata ha continuato a pesare.
La seconda è una nuova diffidenza verso le Pmi e la struttura distrettuale del manifatturiero italiano considerato non innovativo e quindi incapace di reggere la competizione internazionale. Ancora oggi molti considerano parziali le analisi di Confindustria, della Fondazione Edison e di vari ministeri. Eppure le cifre dicono che il manifatturiero italiano è da anni il secondo in Europa (dopo la Germania) e il quinto al mondo per surplus commerciale che nel 2014 è stato di 100 miliardi euro. Un avanzo che da anni vede l'Italia (come dimostra l'indice Fortis-Corradini) nei primi tre posti al mondo per più di 900 prodotti manifatturieri su un campione di circa 5.000 commerciati internazionalmente. Quindi persino nella crisi, il manifatturiero italiano ha resistito e ha continuato ad internazionalizzarsi.

Più tecnoscienze per crescere.
Tuttavia il futuro non potrà essere affrontato dalle imprese solo sulla base delle proprie forze interne. Per questo è necessario attuare una forte politica che promuova la tecnoscienza anche con la crescita dimensionale e funzionale delle imprese (reti di imprese) prendendo a modello le nostre multinazionali flessibili (nelle loro varie qualificazioni tipologiche tra cui quella del IV capitalismo) che sono già avanzate nel passaggio alla fabbrica laboratorio.

La recente analisi di Livio Romano del Centro studi Confindustria ha spiegato infatti come la generica opinione che il nostro sistema manifatturiero investa poco in innovazione discende principalmente dai bassi livelli di spesa in Ricerca e Sviluppo. Siamo infatti all'1% del fatturato manifatturiero contro il 2,8% della Francia e il 3,2% della Germania. Questo dato è parzialmente compensato in termini di competitività italiana dall'alto livello degli investimenti sul valore aggiunto manifatturiero (al 25,6% nel 2007 e al 22,8% nel 2013 con Germania e Francia che dal 15% sono scese al 13,2%) e dalla propensione ad innovare delle imprese italiane con modalità che esprimono tuttavia assai più l'inventiva intraprendenza dell'imprenditore che la ricerca formalizzata e registrata come tale nelle statistiche e nella brevettazione.

Confindustria propone varie politiche per far crescere i livelli di tecnoscienza nelle imprese e per far funzionare al meglio le collaborazioni tra università, centri di ricerca e imprese come fanno in altri Paesi. Tra queste vi è domanda pubblica di prodotti innovativi e il Risk Sharing Facilities (previsto nella legge di stabilità 2014 ma non attivato) per ridurre il rischio nei finanziamenti pubblici e privati su progetti di innovazione industriale. In attesa(che tutto ciò maturi) e in aggiunta ci vuole subito un credito di imposta per gli investimenti in ricerca generalizzato (non incrementale) e la deducibilità fiscale delle spese in R&S nell'anno in cui sono sostenute. Ne seguirebbe sia un forte aumento degli investimenti in ricerca sia una migliore rilevazione statistica degli stessi con effetti positivi di attrattività per i ricercatori e di posizione comparativa rispetto ad altri Paesi industrializzati in tal modo contrastando anche l'opinione che l'Italia si caratterizzi per produzioni tecnologicamente medio-basse.

A nostro avviso, essendo il tema della tecnoscienza del sistema manifatturiero italiano trasversale a molti ministeri bisognerebbe affidarne il coordinamento (senza creare un ministero ad hoc come in altri Paesi) ad un competente sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

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