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Più coraggio negli ideali Ue

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l’europa e la crescita

Più coraggio negli ideali Ue

Invischiati nella crisi greca, i policy-maker europei dovranno presto fare un passo indietro e riflettere sulla questione più ampia del futuro dell'Eurozona. Prima di prevedere un'uscita o, al contrario, un'ulteriore integrazione, vale la pena valutare le conseguenze di ciascuna opzione.

Semplificando, si potrebbe dire che ci sono due strategie per gestire l'Eurozona: quella attuale, che si basa sul Trattato di Maastricht del 1992 e sull'aggiornamento del Fiscal Compact del 2012, ed una più ambiziosa alternativa federalista. Il federalismo sarebbe la configurazione che preferisco, ma non sono convinto che gli Europei siano pronti per fare ciò che è necessario per farlo funzionare.
L'approccio di Maastricht opera un superamento della sovranità statale soltanto attraverso il monitoraggio del deficit e del debito pubblico. I padri fondatori temevano, in modo lungimirante, che il default incombente di un particolare stato avrebbe potuto innescare un bail-out: perciò il Trattato di Maastricht ha previsto sia una soglia per il debito, sia una clausola che vietava il bail-out (“no bail-out clause”). La solidarietà verso un Paese in difficoltà è dettata dal timore che spillover provenienti dal default dello Stato in difficoltà incidano negativamente sui suoi soccorritori. Le esternalità negative che hanno origine dal default possono essere di natura economica (riduzione del commercio, rischi per gli intermediari e le banche, fughe di capitale verso altri Paesi) o di natura non economica (empatia, rischi per la costruzione europea, turbolenze diplomatiche da parte dello Stato in difficoltà). La prospettiva di un bail-out può a sua volta generare azzardo morale; nell'ultimo decennio, i bassi tassi di interesse connessi alla possibilità di bail-out, hanno consentito ai Paesi periferici di procedere su rotte insostenibili.

L'approccio di Maastricht finora ha fallito. Per capirne il motivo, consideriamo i quattro ostacoli che ha di fronte: uniformità, complessità, attuabilità e solidarietà limitata.
Temendo accuse di discriminazione, l'Europa ha definito parametri identici per tutti i Paesi, come se fossero un numero magico per la sostenibilità del debito. Tuttavia, l'uniformità non ha basi teoriche al di fuori della sua trasparenza per i cittadini d'Europa: un debito al 40% può essere insostenibile per uno Stato, mentre un altro può sopportare un debito al 120%. Dipende tutto da una serie di fattori: la sostenibilità del debito di uno Stato può ad esempio essere favorita da una maggior capacità di riscuotere le tasse e di sostenere un aumento della base imponibile, da tassi di crescita più alti, da un aumento dell'influenza politica di quella parte di elettorato che avrebbe più da perdere da un default, o dalla quota del debito detenuta dai residenti (gli Stati non amano scaricare il default sui propri cittadini o sulle proprie banche).

La complessità si riferisce alla difficoltà di misurare l'indebitamento effettivo di uno Stato. Fino alla recente riforma del Patto di Stabilità e Crescita e le modifiche nelle regole dell'Eurostat, le statistiche sui debiti includevano solo i debiti che erano sicuramente da pagare. Il “c ontingent debt” (l'esposizione debitoria fuori-bilancio) può tuttavia essere significativo: spesa pensionistica senza copertura, garanzie fornite ad imprese pubbliche o al sistema previdenziale, potenziali perdite provocate dalle garanzie della Banca centrale europea o dal Meccanismo di stabilità europeo (queste ultime sono riportate, ma non incluse nel debito). Alcune delle menti economiche più brillanti sono diventate esperte nel cartolarizzare le entrate future o nell'utilizzare i derivati per celare l'indebitamento.
Sul fronte dell'attuabilità, i ministri delle finanze dell'Eurozona hanno fallito nel sanzionare le numerose violazioni del Patto di Stabilità e Crescita. Questo non dovrebbe sorprendere. Primo, un ministro delle finanze non vuole esporsi alla probabile ira di uno Stato che viola i patti con una posizione individuale che difficilmente può cambiare una decisione collettiva. Le agende politiche sono altrettanto rilevanti; l'obiettivo di per sé assolutamente legittimo della costruzione dell'Europa è stato spesso invocato per chiudere un occhio su dubbie pratiche di contabilità o sull'insufficiente adeguatezza rispetto all'ingresso nell'Eurozona. Terzo, i casi di “do ut des” sono all'ordine del giorno.

Dal momento che il processo politico è difficilmente in grado di raggiungere il risultato sperato, l'approccio di Maastricht sembrerebbe richiedere un Ufficio di Bilancio indipendente ed altamente qualificato. A differenza di quelli esistenti, questo Ufficio di Bilancio dovrebbe a tutti gli effetti essere Europeo (dopo tutto, il nodo della questione è la relazione “principale-agente” tra l'Europa ed i singoli Stati membri) e capace di imporre misure immediate e correttive. Inoltre, dal momento che le sanzioni finanziarie non sono efficaci quando un Paese è in bancarotta ed in recessione, è necessario adottare misure alternative che tengano conto sia delle esigenze di legittimità sia di quelle di sovranità.
Solidarietà limitata significa che, in assenza di bail-ou t, non vi è un meccanismo che stabilizzi un'economia in difficoltà, la quale è pertanto costretta ad assumersi per intero il costo dell'aggiustamento. La garanzia europea ex-post è necessariamente limitata. L'intero dibattito riguardo chi guadagnerebbe o perderebbe in conseguenza di uno stimolo fiscale nella Core Europe discende dalla solidarietà limitata.
Questo mi porta a ragionare dell'alternativa di un approccio federalista.
L'approccio federalista, di cui sono un sostenitore, implica sostanzialmente più risk-sharing. Gli Eurobond renderebbero i Paesi europei collettivamente responsabili dei debiti sovrani. Un bilancio comune, una assicurazione europea sui depositi e sussidi comunitari di disoccupazione agirebbero come stabilizzatori automatici, offrendo molta più protezione agli Stati e rendendo la politica di no bail-out più credibile (gli stabilizzatori riducono le giustificazioni per le cattive performance fiscali); a questo riguardo, giova ricordare che il governo federale degli Stati Uniti smise di fare salvataggi fiscali dei singoli Stati Usa attorno al 1840.

La visione federalista ha due prerequisiti. Primo, gli Stati che vivono sotto lo stesso tetto devono avere leggi comuni, al fine di evitare l'azzardo morale. L'Unione Bancaria ci dà qui un po'di speranza e potrebbe aprire la strada ad una assicurazione sui depositi comunitaria, poiché la regolamentazione centralizzata rende meno probabile che Paesi scrupolosi debbano pagare per quelli che trasgrediscono. Ma consideriamo i sussidi per la disoccupazione; il tasso di disoccupazione nell'Eurozona è soltanto in parte determinato dal ciclo: buona parte di esso è legato alle decisioni riguardanti la protezione del lavoro, le politiche attive per il mercato del lavoro, i contributi previdenziali, gli istituti di formazione professionale e cosi via.
Chiaramente, i Paesi che scelgono istituzioni che portano a tassi di disoccupazione del 5% non vorranno sussidi di disoccupazione in comune con quelli le cui istituzioni favoriscono tassi del 20%. Al momento, tuttavia, non sembra che gli Europei siano disposti a rinunciare alla loro sovranità. In secondo luogo, ogni contratto d'assicurazione si firma dietro un velo d'ignoranza. Non accetterai la solidarietà con me all'interno di un contratto di assicurazione sulla casa, se la mia casa è già in fiamme.
L'attuale asimmetria tra gli Stati settentrionali e meridionali potrebbe forse essere risolta identificando e isolando i problemi ereditati dal passato, e risolvendoli. Ma il primo requisito resta in piedi: noi Europei dobbiamo accettare la perdita di sovranità che va di pari passo con il vivere sotto lo stesso tetto. E per fare questo, dobbiamo redimerci e schierarci uniti per l'ideale europeo, il che di questi tempi richiede coraggio.
L'economista francese Jean Tirole ha vinto il Premio Nobel per l'Economia nel 2014

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