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Il passo obbligato

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Il passo obbligato

Finisce com'era logico, politicamente, che dovesse finire. Il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, compie l'unico passo possibile: quello indietro. Avanti non poteva più andare, senza la fiducia del premier Renzi e del Pd. E così oggi lascia il ministero dove secondo i magistrati operava «un'organizzazione criminale di spessore eccezionale».

Prevale alla fine un criterio di opportunità e responsabilità politica, la sola bussola possibile, nelle circostanze date, che disinnesca una mina sotto il tavolo del governo (che si regge anche sui voti del Ncd, di cui Lupi è esponente di punta) e che insieme consente all'ormai ex ministro di difendere meglio se stesso e la sua famiglia. Si capisce che la scelta non sia stata facile ma non potevano esserci ombre sulla credibilità dell'esecutivo e di un dicastero-chiave per la ripresa. Lupi se ne è reso conto e di questo gli va dato atto.
Due le annotazioni che si possono fare. La prima. Lupi non era indagato da magistrati e tuttavia è stato travolto dall'inchiesta che ha portato in carcere il superburocrate storico delle Grandi Opere, Ettore Incalza, di fatto il “dominus” del ministero da quasi quindici anni. Migliaia di pagine di intercettazioni telefoniche sono alla base del lavoro dei magistrati fiorentini: è la loro emersione (al netto della sempreverde polemica sulle regole violate e sull'uso, anche mediatico, delle intercettazioni) che ha stretto d'assedio il ministro fin dal primo momento.
Ancorché non indagato, non può tenere politicamente il campo un ministro che afferma per esempio di non essersi speso per aiutare un figlio ma che poi si ritrova a dover fare i conti, nero su bianco, con una pagina in cui sta scritto che ha mandato il familiare da Incalza per fargli fare con lui «due chiacchiere, nel senso di avere consulenze e suggerimenti eccetera». Naturalmente – in questo come nelle moltissime altre circostanze in cui l'indagine richiama il nome del ministro – Lupi avrà modo di chiarire, precisare, controbattere. Ma l'ininfluenza giudiziaria (al momento) è altra cosa dai comportamenti politici su quali pende, appunto, un giudizio politico e una doverosa rendicontazione alla pubblica opinione. Ed è qui che la sostenibilità della difesa del politico neanche indagato può crollare.

Seconda annotazione. Siamo al cospetto di un'inchiesta monstre (si chiama non a caso “Sistema”) che necessita di molti e puntuali riscontri probatori. Senza i quali la stessa inchiesta potrebbe sciogliersi come neve al sole: e di tutto abbiamo necessità meno che di ulteriori dosaggi di incertezza del diritto su un terreno cruciale come quello della funzionalità della pubblica amministrazione. Per cui ci si augura che i tempi siano i più rapidi possibili ed il lavoro il più accurato possibile, quale che sia l'approdo.
Tuttavia, il quadro che emerge dalla commistione tra politica e burocrazia è di quelli che fanno tremare i polsi, anche al netto di scambi di favori, regalìe e clientelismi che affiorano comunque abbondanti e scandalosi. La burocrazia appare come un pachiderma d'acciaio, la politica come una canna al vento. È il burocrate che ha in mano il gioco e detta i tempi, non il ministro di turno. E la prima corruzione di sistema – una vera grande opera realizzata – consiste proprio in questo: aver costruito un modello articolato in cui la politica è serva della burocrazia (a spese dei contribuenti, neanche a dirlo).
Quanti Incalza ci sono in Italia? «Io credo – ha risposto Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione – che ce ne siano tanti, sui quali bisogna intervenire a prescindere dal fatto che siano onesti o disonesti, perché il rischio vero è che si creino meccanismi di incrostazione pericolosissimi». È un rischio che è già un fatto, e da qui bisogna ripartire.

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