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Vendere per crescere

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L’ANALISI

Vendere per crescere

«L’Italia ha bisogno di aziende forti, non di poteri forti». Era l’11 gennaio del 2006, circa un anno prima di uscire da Telecom Italia, quando Marco Tronchetti Provera decise di aprire così la sua intervista al Sole24Ore. L’estate rovente delle scalate ad AntonVeneta e Bnl e dell’assalto al Corriere della Sera era ormai alle spalle.

Ma su Tronchetti, la Pirelli e Telecom cominciava a montare una pressione che si sarebbe poi rivelata ben più pericolosa dei rastrellamenti di azioni Rcs da parte di Stefano Ricucci e Giampiero Fiorani, quella della politica. Come finirono poi le cose è noto a tutti: Tronchetti respinse i diktat del Governo sullo scorporo della rete Telecom e fu costretto a vendere le quote nella compagnia, mentre la stessa Telecom, che fino al 2006 aveva cercato in ogni modo di restare «azienda forte», sprofondò in una crisi societaria e di mercato da cui solo ora, tra vecchie e nuove «pressioni», sta cercando di uscire.

E la Pirelli? Per sua fortuna, e per la fortuna dei suoi azionisti grandi e piccoli, il più grande gruppo italiano nel settore degli pneumatici tornò ad essere gestito a tempo pieno da Tronchetti Provera, il cui impegno prioritario diventò immediatamente l'evoluzione della Pirelli in azienda multinazionale con base italiana: grazie agli investimenti in Russia e Sud America, alle joint venture e agli accordi internazionali, Tronchetti ha portato al 94% la quota di produzione e fatturato realizzati all'estero dall'azienda della Bicocca, attraendo così non solo l'interesse di grandi investitori internazionali (oggi rappresentano il 46% del capitale Pirelli) ma anche quella dei colossi industriali dei Paesi emergenti, prima i russi di Rosneft e oggi i cinesi della ChemChina. È difficile stabilire se la frase «aziende forti, non poteri forti» fosse solo una generica riflessione filosofica sul futuro del capitalismo italiano, o qualcosa di molto più personale, profondo e concreto. Certo è che fu proprio a partire da quegli anni - vigilia della grande crisi finanziaria ed economica mondiale del 2007 - che il monito dell'imprenditore milanese cominciò a concretizzarsi come una sorta di profezia rimasta inascoltata: i patti di sindacato che giravano intorno a Mediobanca cominciarono a sciogliersi uno dopo l'altro, così come le scatole cinesi e soprattutto quel tessuto di rapporti chiamato capitalismo relazionale che aveva tenuto insieme l'industria e la finanza italiana (non senza danni) fin dal dopoguerra. Il problema vero è che la seconda parte della “profezia” è ancora in alto mare: una chiara divisione dei ruoli tra politica e industria, una classe politica coesa e determinata nella modernizzazione del Paese e soprattutto in grado di aiutare le imprese a diventare «aziende forti». Chi ci è riuscito, come la Pirelli di Tronchetti o la Fiat-Fca di Sergio Marchionne, lo ha fatto senza avere un sistema-Paese alle spalle, contando sulla propria credibilità e sulle risorse dell'azienda e dei suoi azionisti. Per avere aziende forti, e soprattutto per avere aziende in grado di diventare più grandi e più forti dei loro concorrenti esteri, non basta solo un buon manager o un buon imprenditore: serve un sistema-Paese in grado di migliorarsi con le riforme strutturali, di favorire e sostenere l'internazionalizzazione delle sue imprese e soprattutto - vista la cronica mancanza di risorse pubbliche - di aprirsi al mercato con serie privatizzazioni e vere liberalizzazioni. In altre parole, se si vogliono aziende competitive e si vuole davvero evitare che una dopo l'altra le nostre imprese vengano vendute all'estero, bisogna che l'industria italiana sia messa in grado di recuperare competitività su scala mondiale. Oggi si parla della vendita della Pirelli ai cinesi, del riassetto di Telecom Italia e della fuga all'estero della Fiat, ma in realtà lo shock dell'industria italiana ha colpito tutto il sistema nello stesso momento. E in particolare la piccola media impresa. L'ingresso nell'euro, con la fine delle svalutazioni competitive, l'esplosione della competizione asiatica e dell'Est europeo e i cambi generazionali hanno causato un triplice shock da cui gli imprenditori stanno cercando faticosamente di uscire. In questo senso, l'industria italiana ha persino smesso di lamentarsi per l'assenza di una vera politica industriale: la Pirelli, la Fiat e tante altre imprese hanno solo bisogno di essere aiutate in termini di competitività del sistema-Paese. La competitività è valutare le aree in cui il Paese può dare il meglio, migliorare il livello delle infrastrutture e il sistema amministrativo. Competitività è attrarre investimenti. Come di fatto è accaduto ora per la Pirelli e per Tronchetti, le cui scelte sull'azienda meritano profondo rispetto: e anche se i cinesi avranno il cotrollo del capitale, sarà il management attuale a gestire ancora il gruppo, e italiana resterà sia la sede della Pirelli sia la sua tecnologia.

Molti si faranno a questo punto una domanda: ma se la Pirelli è riuscita ad affermarsi come azienda forte, perchè mai Tronchetti ha deciso di venderla all'estero? La risposta è facile: per l'entità dell'offerta, ovviamente, ma soprattutto per metterla in condizioni di crescere ancora di più, farla diventare parte di una realtà globale in cui possa svolgere il ruolo di predatore e non quello di preda. Un pò come sta facendo Marchionne per la Fiat. Non tutti saranno d'accordo. Ma su questi temi è facile scegliere le scorciatoie, scivolando su posizioni moralistiche. L'Italia ha la possibilità di recuperare terreno, così come hanno dimostrato i grandi rilanci che hanno segnato la nostra recente storia industriale, come quelli di Pirelli o di Fiat. Basta non remare contro.

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