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Il Qe non basta, senza riforme l'Italia tornerà alla casella zero

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Il Qe non basta, senza riforme l'Italia tornerà alla casella zero

Non avrà convinto tutti (come invece accadde nell'autunno del 2012 al Bundestag tedesco, dove venne definito il “prussiano del sud”), ma di certo la “prima” di Mario Draghi come presidente della Bce alla Camera di fronte alle commissioni riunite Finanze, Bilancio e Politiche Ue, è servita a chiarire diversi aspetti. Caso-Italia in bella e trasparente vista.

Primo: questa è una ripresa ciclica e non strutturale. La nuova politica monetaria della Bce (con il Quantitative easing che durerà almeno fino a settembre 2016) accompagna e irrobustisce le prospettive di crescita. Ma non è in grado di accrescere il potenziale produttivo di un paese, che dipende dalla realizzazione delle riforme strutturali.

Secondo: mettiamoci alle spalle facili demagogie. Come quella per la quale è l'euro l'origine di tutti i problemi alla radice del mancato sviluppo italiano e della devastante crisi scoppiata nel 2008. La crescita potenziale si era già smorzata prima dell'avvento della moneta unica dal 2,5% dei primi anni Novanta all'1,5% del 1999 e «riducendosi ora a quasi zero».

Terzo: addio all'euro? Occhio. Il famoso spread sopra i 500 punti base tra BTp italiani e Bund tedeschi dell'autunno 2011 e nel 2012 ci era già noto. Nel senso che, ha spiegato Draghi, è quello pagato in media dagli italiani per 15 anni «prima dell'ingresso dell'Italia nell'euro, e chi vuol fare paragoni può avere un primo parametro».

Quarto: la politica dell'austerity ha colpito durissimo, è vero. Perché la manovra di rientro in tempi rapidi – come prescritto dai vincoli istituzionale europei - si è combinata con gli «errori di politica economica precedenti» accentuando gli effetti recessivi.

Quinto: messaggio a Berlino. La nuova politica espansiva della Bce (che facilita i finanziamenti all'economia reale, famiglie e imprese) non disincentiva le riforme strutturali ma crea le condizioni migliori per realizzarle.

Sesto: in Italia le riforme stanno cominciando a dare i loro frutti. Ieri dal mercato del lavoro sono arrivate buone notizie e Mediobanca Securities spiega nel suo rapporto che il Jobs Act del governo Renzi vale da solo un quarto della crescita attesa dall'intero pacchetto riforme che entro il 2020 dovrebbe portare 3,4-4,4 punti di Pil in più. Ma è chiaro che si tratta di smuovere macigni, non sassi. Draghi è stato netto. La produttività del lavoro ristagna da molti anni, quella totale dei fattori, che misura lo stato di salute del sistema seconda potenza manifatturiera continentale, in arretramento storico. La giustizia civile italiana è la più lenta d'Europa e con processi più veloci avremmo imprese più grandi dell'8-10%. Occorrono regole certe, rispetto dei contratti, un ambiente per fare impresa migliore. Le imprese sono troppo piccole, le banche (positivo il giudizio su riforma delle Popolari e ipotesi bad bank) chiamate anche loro a rinnovarsi ed accorparsi abbassando i costi (che pagano i clienti) di una governance a volte ipertrofica.

Settimo: in Italia le tasse sono troppo alte, ieri come oggi. E rispondendo a una domanda del presidente della commissione Finanze, Daniele Capezzone, ha avvertito governo e Parlamento: è sbagliato il circuito «più spese correnti, più tasse, meno investimenti pubblici». «Non è questo un consolidamento amico della crescita», ha spiegato Draghi che ha citato i calcoli del professor Luigi Zingales: se avessimo bloccato la spesa ai livelli del 1997 il debito pubblico, a inizio crisi nel 2007, sarebbe stato del 67% e non del 103%.

Ottavo: che fare? Andare avanti è l'unica strada possibile. Se ci ferma si torna presto al punto di partenza. Draghi non l'ha detto, ma sarebbe la casella zero di un drammatico gioco dell'oca.

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