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Quando l'Italia fa autogol oltre i suoi demeriti

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il senso delle pagelle internazionali

Quando l'Italia fa autogol oltre i suoi demeriti

Può un pugno di 87 manager stabilire se l'Italia è meno competitiva di Malta e Mauritius o se ha un mercato del lavoro peggiore di Libia e Pakistan e un accesso al credito al livello di Nigeria e Burkina Faso? Per il World economic forum sì.
L'organizzazione nota per gli incontri di Davos stila infatti il suo Global competitiveness index in gran parte su un questionario di una ventina di pagine somministrato a un gruppo di opinion leader per ogni Paese.

Nel Global competitiveness index più recente, l'Italia si è piazzata al 49° posto della classifica mondiale e addirittura al 136° per il lavoro e al 139° per il credito.
Questi risultati sono il frutto delle risposte date da 87, tra dirigenti di grandi o piccole aziende, alle oltre cento domande spesso molto generiche - dalla qualità delle scuole primarie a quella delle strade fino all'efficacia delle norme antitrust - attribuendo un voto da uno (il minimo) a sette (il massimo). E le pagelle per l'Italia, neanche a dirlo, sono state impietose, come accade da molti anni a questa parte, in particolare nelle 81 variabili ricavate dalle risposte al questionario e quindi dalla percezione degli interpellati. Nelle restanti 37, invece, basate su dati economici reali (Pil, numero di imprese, aspettativa di vita, accessi alla banda larga) ci piazziamo molto meglio.
È forse questo uno degli esempi più lampanti della fragilità metodologica di molte classifiche internazionali su cui spesso ci giudichiamo e veniamo giudicati. Delle sette graduatorie più popolari, che ci vedono puntualmente in coda rispetto ai nostri principali partner europei, nessuna si basa esclusivamente su dati statistici oggettivi: tutte, chi più chi meno, utilizzano dati soggettivi raccolti attraverso sondaggi e indagini a campione.

Ma chi risponde è in grado di mettere a confronto l'Italia con tutti i Paesi o lo fa solo con quelli più avanzati? «È indubbio che l'aspettativa dei manager italiani sia legata a benchmark alti: il nostro parametro di confronto è l'Europa più sviluppata e questo incide sui giudizi», avverte Francesco Saviozzi, il docente della Bocconi che insieme alla collega Paola Dubini si occupa della survey del Wef per l'Italia. Saviozzi riconosce come «mettere tutti questi Paesi in una stessa classifica sia forse una semplificazione» ma critica chi in Italia “banalizza” questi indicatori e indica la chiave di lettura giusta: «In Italia ci sono problemi irrisolti da tanti anni, che sono evidenti a tutti ma che non si risolvono. È la resistenza nel tempo a creare insoddisfazione, più che il peso reale delle difficoltà. È su questo che si devono interrogare i nostri politici». Una zavorra, quella dei nodi irrisolti, che ci condanna indubbiamente a essere un Paese poco attrattivo per le imprese ma certo non meno del Paese africano di turno.

In quest'ottica sarebbe quindi lo stallo percepito, contrapposto al dinamismo avvertito chiaramente altrove, a determinare la nostra pessima performance. Siamo 56esimi nell'ultimo rapporto Doing Business della Banca Mondiale, dopo il Ruanda e la Bulgaria. Siamo addirittura 80esimi per l'Index of economic freedom, lontanissimi dal 36° posto del Botswana. Per non parlare della 69esima posizione nel Corruption Perception Index, del 73° posto nel World Freedom Press Index (con un salto di ben 24 posizioni rispetto al 2013) e del 69° nel Global Gender Gap Index.
Qualcuno la chiama “sindrome del Botswana”, la tendenza ad accostare il nostro Paese a Stati difficilmente assimilabili all'Italia per livello di benessere e di ricchezza. Un punto, questo, molto contestato dagli statistici, che sottolineano come bisognerebbe suddividere gli Stati in gruppi omogenei perché i confronti siano attendibili. «La comparazione a tutti i costi senza tenere conto delle profonde differenze tra Paesi rischia di diventare un esercizio di scarso valore, che può portare a risultati poco significativi, se non addirittura fuorvianti», avvisa Federica Pintaldi, ricercatrice Istat e autrice di un volume, a titolo personale, (“Come si interpretano gli indici internazionali”) che demolisce alcune di queste classifiche. Mettendo in evidenza le tante pecche degli indici: hard data e soft data mescolati insieme, scarsa trasparenza, autoreferenzialità delle agenzie promotrici che spesso si citano le une con le altre, continue revisioni metodologiche (spesso legate alla pioggia di critiche che accompagna l'uscita delle classifiche) che rendono a volte impossibile un confronto nel tempo.

Fa in parte eccezione il Doing Business. Sconta come gli altri un campione molto limitato (nel 2014 sono stati 178 gli interpellati, quasi tutti avvocati ed esperti di studi professionali), ma si avvale di questionari più specifici che indagano l'impatto di leggi e regolamenti sull'attività di impresa. E misura la “distanza dalla frontiera”, ovvero il gap delle varie voci dalla miglior performance raggiunta per ogni indicatore. Un parametro che permette di valutare i miglioramenti nel tempo. Progressi che, nel caso dell'Italia, in termini assoluti ci sono stati. «In diversi indicatori - segnala la stessa Banca mondiale - l'Italia si sta avvicinando ai Paesi con le regolamentazioni più efficienti, soprattutto nelle aree di avvio d'impresa, pagamento delle imposte e risoluzione di dispute commerciali». Il problema, di nuovo, è che lo fa troppo lentamente rispetto ad altri. È questo che spiega il sorprendente sorpasso in classifica di Paesi meno sviluppati ma molto più dinamici.
Un handicap, quello della paralisi, che fa ingigantire la percezione dei pur annosi problemi nostrani. L'esempio più lampante è la corruzione, al centro delle cronache da almeno vent'anni. Nell'ultima graduatoria di Transparency International (basata proprio su un indice di percezione), risultiamo al 69° posto con l'85% degli italiani convinti che istituzioni e politici siano tutti corrotti. Ma, alla domanda specifica posta a un campione di cittadini se negli ultimi 12 mesi avessero vissuto direttamente o tramite un membro della propria famiglia un caso di corruzione, la risposta è stata negativa nella stragrande maggioranza dei casi, in linea con le altre nazioni sviluppate.

Il risultato dei ranking riflette dunque più l'immagine che un Paese ha di sé che non il quadro concreto. Per l'Italia le classifiche assomigliano a un'istantanea del disincanto, la prova che nell'ultimo decennio gli italiani hanno appeso la fiducia al chiodo. Che il peso della crisi si è abbattuto su un sistema stanco e indebolito. Che l'immobilismo del mercato del lavoro, la burocrazia, i ritardi della giustizia, lo stato delle infrastrutture, i lacci e i lacciuoli all'impresa - tutte dimensioni esplorate negli indici - hanno restituito a chi nel mondo imprenditoriale si muove ogni giorno l'idea di un'Italia meno libera e meno attiva del Ruanda.
Non è un caso che dal 2006 a oggi siamo peggiorati in quasi tutti gli indicatori. Tranne uno, dove abbiamo scalato 12 posizioni: il Legatum Prosperity Index, l'unico che cerca di misurare, con tutti i limiti metodologici degli altri e forse anche di più, il benessere complessivo di un Paese oltre il Pil. È il solo in cui “svettiamo” al 37° posto (ma nel 2013 eravamo al 32° posto e siamo sempre comunque dietro il Costa Rica). Spulciando tra gli indicatori, che spaziano dall'imprenditoria alla libertà personale, si scoprono però enormi incongruenze. Una per tutte: i primi al mondo alla voce “salute” sono gli Stati Uniti, l'Italia è soltanto 24esima. Ma è lo stesso rapporto a segnalare che gli americani spendono una cifra astronomica per la sanità (8mila dollari pro capite) e hanno un'aspettativa di vita inferiore a quella di Hong Kong, che ne spende 2mila, e soltanto 3 anni in più dei vietnamiti, che spendono appena 233 dollari pro capite.

Davanti a questi nonsense, appare chiaro che attribuire troppa importanza a questi indici è sbagliato: troppo dipende dai benchmark, dagli obiettivi, dai pesi e dagli umori. Che in Italia sono pessimi: lo conferma la prima indagine di Eurostat sul livello di felicità dei cittadini europei pubblicata il 19 marzo, che vede i giovani italiani in fondo alla classifica, insieme a greci, ciprioti e ungheresi. Eppure, volendo, si può lavorare per scalare posizioni. Lo insegna la Russia: Vladimir Putin, stanco di vedere il proprio Paese in coda alla classifica di Doing Business, ha “ordinato” di raggiungere il 20° posto entro il 2018 dal 120° del 2011. Un impegno che i papaveri di governo devono aver preso sul serio: già quest'anno la Russia è salita al 64° posto.

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